Il popolo invisibile di Seul
Nelle periferie della ricca e avveniristica Corea del Sud emerge un sottobosco di povertà ed emarginazione
Di Fabio Polese
Pubblichiamo un contributo apparso su ticino7, allegato a laRegione
Dalla frenesia totale e ininterrotta della capitale sudcoreana (di un Paese ricco e all’avanguardia), emerge un sottobosco di povertà e disperazione, diffuse soprattutto fra coloro che non riescono a tenere il passo con la velocità della società.
L’arrivo a Seul mi coglie di sorpresa. Non è l’Asia che conoscevo. Sono abituato a un continente che, pur nel suo caos, sa rallentare, in cui il frenetico ritmo urbano si fonde con momenti di tranquillità, con luoghi che respirano antiche leggende e tradizioni. Ma qui è tutto diverso. La frenesia è totale, ininterrotta, come se questa metropoli fosse un’entità vivente, incapace di fermarsi. Le strade si snodano tra grattacieli che sembrano rincorrersi fino a sfiorare il cielo, mentre una marea di persone si muove instancabilmente, ognuna persa nel proprio mondo. Non c’è spazio per la calma che conoscevo, né per quegli incontri casuali che sono abituato a fare durante i miei viaggi in Oriente. Qua tutto scorre velocemente, e non puoi fare altro che seguirne il ritmo.
© Fabio Polese
Rifiuti, dipinti e vecchie pubblicità sono appoggiati su una tenda sotto il ponte dell’autostrada che collega Seongnam, città satellite di Seul, alla capitale
Frenesia totale
La Corea del Sud è uno dei Paesi più tecnologicamente avanzati e ricchi del mondo. Giganti industriali come Samsung (il più grande fornitore di telefoni cellulari al mondo), LG e Hyundai dominano il panorama globale. Il Paese asiatico è anche uno dei maggiori esportatori internazionali, con un surplus commerciale significativo grazie alla vendita di prodotti tecnologici, automobilistici e chimici.
Nel 2022, le esportazioni hanno superato i 683 miliardi di dollari, consolidando la posizione della Corea come uno dei principali attori nel commercio internazionale.
Universo parallelo
Ma basta osservare con più attenzione e dietro il velo del progresso iniziano a emergere i segni di un profondo malessere. È come se, sotto la superficie, si rivelasse un universo parallelo, un sottobosco di povertà e disperazione. Sono le vite di coloro che non riescono a tenere il passo con la velocità con cui la società sudcoreana si proietta verso il futuro. Una corsa sfrenata che ha lasciato indietro milioni di persone, invisibili ai margini di un sistema crudele. Per loro, la battaglia quotidiana non è per il successo, ma per la sopravvivenza. Sono costretti a lottare ogni giorno, in silenzio, contro una realtà che sembra ignorare la loro esistenza.
Lo sconforto di Kim
«Facevo una vita normale, avevo un lavoro, una moglie e due figli. Poi, all’improvviso, tutto è cambiato», dice Kim, un uomo sui sessant’anni, con la voce spezzata, mentre rovista tra le sue poche cose sotto un ponte dell’autostrada alla periferia di Seul, a pochi chilometri dai quartieri di lusso. «Ho perso il lavoro, mia moglie non c’è più e i miei figli non li vedo mai. Non voglio essere un peso per loro. Ora aspetto solo la morte», aggiunge con lo sguardo fisso nel vuoto, segnato da anni passati in strada e dal Soju, l’alcolico tradizionale coreano che sembra essere il suo unico conforto. Il riparo di Kim è un ammasso di coperte logore e scatole di cartone, in una giungla di asfalto e metallo. Tra i 51 milioni di abitanti della Corea del Sud, circa 7,7 milioni vivono sotto la soglia dell’indigenza. Nel 2022, secondo gli ultimi dati disponibili, il tasso di povertà relativa, ovvero quelle persone che hanno un reddito significativamente inferiore alla media nazionale, era del 14,9%. Circa il 10% di queste, invece, vive in estrema povertà, con difficoltà ad accedere a servizi come l’assistenza sanitaria e l’istruzione. Gli anziani sono i più colpiti: il 38,1% vive in condizioni di indigenza, il tasso più alto tra i Paesi membri dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE). Molte delle persone di età avanzata non riescono ad arrivare a prendere la pensione minima.
E il contesto sociale ha subito una trasformazione radicale. Un tempo, i figli si occupavano dei genitori anziani, offrendo loro sostegno e assistenza. Oggi, però, questo appartiene al passato. I giovani lasciano le loro case per rincorrere il mito della carriera lavorativa, spinti dalla pressione di un progresso sempre più individualista.
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Kim, un uomo di circa sessant’anni, fissa il vuoto dal suo rifugio improvvisato dove vive da anni
Non dimenticare il più debole
«La società coreana è molto complessa, articolata e veloce. Tutte quelle persone che non riescono a starle dietro si ritrovano a essere escluse», mi spiega Padre Vincenzo Bordo, 67 anni, missionario italiano degli Oblati di Maria Immacolata, arrivato in Corea del Sud nel 1990. Lo incontro alla Casa di Anna, una struttura che ha fondato nel 1992 a Seongnam, città satellite di Seul. Qua, il religioso, che ha recentemente pubblicato il libro Chef per amore (Edizioni CVS), dove riporta storie incredibili e riflessioni personali, scritte con passione, senza retorica, da una persona che ha dedicato oltre metà della propria vita agli ultimi, fornisce gratuitamente oltre 500 pasti al giorno ai più bisognosi.
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Un anziano mangia e si gusta l’unico pasto della giornata
«Da quando sono arrivato, il Paese è cambiato tantissimo. Da una parte, sicuramente in meglio, con uno sviluppo economico davvero importante, che ha portato benessere. Dall’altra parte, però, ha perso tanti valori tradizionali, primo fra tutti quello verso la comunità, dove ci si aiutava costantemente. Oggi ci troviamo di fronte a un sistema più egoista, che si dimentica del più debole in nome del progresso», mi spiega.
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Padre Vincenzo Bordo all’interno della cucina della struttura, mentre prepara il cibo per i senzatetto
Sono circa le tre del pomeriggio e, davanti alla Casa di Anna, la fila si allunga in silenzio. Tra gli anziani in attesa, noto Jin. I capelli neri, arruffati, gli cadono sul viso, mentre le palpebre sembrano essere troppo pesanti da tenere sollevate. È esausto e ogni respiro è un piccolo sforzo, come se la vita lo avesse consumato lentamente, giorno dopo giorno. «Ci sono tanti Jin», mi dice Padre Vincenzo, che oltre a questa struttura gestisce molte altre attività parallele per aiutare i più deboli e i ragazzi di strada. «Qua cerchiamo di non offrire solo cibo, ma anche di dare dignità, senso di condivisione e speranza a tutte queste persone», aggiunge prima di salutarmi. Mentre lascio la Casa di Anna per prendere la metropolitana che mi riporterà verso il centro della città, tra gli enormi grattacieli illuminati dalle pubblicità dei grandi marchi, non posso fare a meno di pensare che in un Paese in corsa verso il futuro, la vera sfida dovrebbe essere quella di non dimenticare chi resta indietro.
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