Opere d’arte africana, collezionismo fra etica e passione

I collezionisti Lorenza e Michele Moser: ‘Dal punto di vista morale, è importante interrogarsi sulla provenienza e sulle modalità di acquisizione’

Di Nicoletta Barazzoni

Pubblichiamo un contributo apparso su ticino7, allegato a laRegione

La famiglia di Lorenza e Michele Moser, divenuti collezionisti d’arte africana, ha raccolto 650 opere di vario genere catalogate e descritte in una pubblicazione dal titolo ‘Black Moyo’ (ed. Darte, 2021). Oggi, Abu Dhabi ha in cantiere un progetto di respiro internazionale nell’edificazione di ulteriori sette nuovi musei e la collezione ‘Black Moyo’ potrebbe infine avere spazi nell’ambito di un museo dedicato. La famiglia Moser, nel corso degli ultimi dieci anni, ha messo a disposizione pezzi della sua collezione per mostre permanenti pubbliche e private. Il Museo d’Arte e Scienza di Gottfried Matthaes di Milano ha stilato i certificati di validità e di datazione di tutte le loro opere.
Sul tema del collezionismo di arte etnica e tutte le sue implicazioni abbiamo intervistato Lorenza Moser.


© Famiglia Moser
Lorenza Moser

Lorenza, come avete iniziato a interessarvi di arte africana?

Tutto è iniziato quando ho incontrato mio marito. Essendomi laureata in antropologia culturale, il fascino per altre culture faceva già parte del mio percorso. Abbiamo cercato manufatti che risuonassero con noi a livello culturale e personale. Sentivamo il peso simbolico di ogni opera e la profonda umanità che queste trasmettevano, comprendendo che non si trattava solo di estetica, ma anche di valori di innovazione, resilienza e comunità. L’importanza di essere socialmente responsabili, è uno fra i principi fondamentali che condivido anche nel mio percorso professionale di imprenditrice, così come nella mia passione per l’arte africana.

Quale processo collezionistico avete seguito?

La nostra collezione si è formata seguendo un processo meticoloso e fondato su un profondo rispetto per le opere e per le culture da cui provengono. Molte delle quali sono state recuperate in Europa presso famiglie che le avevano ereditate dai loro nonni, i quali avevano vissuto e lavorato nelle colonie africane. Il nostro obiettivo è stato sempre quello di riformare una collezione che rappresentasse in modo autentico l’intera regione subsahariana, certificandone la provenienza e valorizzandone il significato storico e culturale. La trasparenza e l’etica sono state al centro del nostro approccio.

Da quali Paesi provengono le opere e di che tipo d’arte si tratta?

La nostra collezione include opere provenienti da diversi Paesi dell’Africa subsahariana, come Nigeria, Mali, Ghana, Costa d’Avorio, Congo, Senegal, Burkina Faso eccetera. Si tratta di una varietà di espressioni artistiche che spaziano da maschere, statue in legno e bronzo, a oggetti rituali che accompagnano momenti cruciali nella vita delle comunità. Il nostro obiettivo, oltre a curarne la conservazione, è quello di valorizzarne il significato culturale e il loro ruolo nella vita quotidiana delle comunità che li hanno creati.

La vostra attività è un investimento a scopo di lucro?

La nostra attività di collezionisti non è mai stata pensata a scopo di lucro. Per noi, l’arte africana non rappresenta un investimento economico, ma un arricchimento culturale e personale. La raccolta di queste opere ha l’intento di preservare una parte importante del patrimonio culturale dell’umanità. La passione è stata il motore che ci ha portati a esplorare culture diverse e a entrare in contatto con tradizioni secolari. Per noi le testimonianze autentiche delle esperienze che viviamo sono ben più preziose di qualsiasi guadagno economico. È un modo per connetterci con qualcosa di più grande, che ci arricchisce emotivamente, intellettualmente e spiritualmente.

Perché avete accettato di esporre al museo di Abu Dhabi e non, per esempio, allo Zeitz Museum of Contemporary Art Africa a Città del Capo, allo Zoma Art Center di Addis Abeba o al museo Rietberg di Zurigo?

Abu Dhabi ha in cantiere un progetto di respiro internazionale nell’edificazione di sette nuovi musei, e la collezione BlackMoyo potrebbe infine avere spazi nell’ambito di un museo dedicato all’arte africana. La scelta di esporre in futuro la nostra collezione ad Abu Dhabi è stata frutto di una riflessione guidata da diverse considerazioni, prima fra tutte la sicurezza e la conservazione delle opere. Le condizioni di esposizione e conservazione devono essere ottimali. Riconosciamo allo Zeitz Museum of Contemporary Art Africa e allo Zoma Art Center un ruolo cruciale nella valorizzazione dell’arte africana. La collaborazione con il Museo Rietberg di Zurigo l’abbiamo considerata perché sarebbe in linea con la nostra visione di rendere l’arte africana accessibile a un pubblico internazionale.

Le istituzioni africane riflettono sempre più sulla moralità di possedere cimeli culturali che potrebbero aver lasciato l’Africa legalmente, ma in condizioni non etiche. L’accordo firmato dal governo tedesco e dalla Commissione per i Musei e i Monumenti della Nigeria fa sperare in un cambio di prospettiva. Non crede che la restituzione dei beni sia un atto di giustizia riparativa?

Il tema della restituzione dei beni culturali africani è carico di implicazioni storiche, morali e culturali. Dal punto di vista etico è importante che chiunque possieda opere africane si interroghi sulla provenienza e sulle modalità con cui sono state acquisite. Qui si spiega la nostra alta sensibilità nel voler permettere alla nostra collezione di essere parte di un più ampio dibattito sul patrimonio culturale africano, magari attraverso collaborazioni con musei locali o mostre che possano restituire valore simbolico e culturale alle comunità di origine. Sarebbe certamente un atto di giustizia. Il fatto che le opere d’arte africane siano esposte in musei e collezioni europee e occidentali può essere visto come una continuazione di un potere disuguale. Significherebbe quindi riconoscere il valore culturale, storico e spirituale che esse hanno per le comunità africane, e sancire un atto di giustizia riparativa.

Non è solo un riconoscimento del furto storico e della spoliazione. È una realtà che ci sta a cuore, affinché le opere che possediamo possano contribuire a restituire valore ai loro contesti originali, sia attraverso una restituzione diretta sia attraverso progetti di collaborazione culturale con musei africani: sarebbe un atto di profondo rispetto e giustizia.

Non vi rimproverate nulla?

La domanda che pone è profonda e tocca questioni morali e storiche che meritano una riflessione sincera e onesta. Possedere una vasta collezione d’arte africana, come quella che abbiamo creato, riunito evitandone la dispersione, creando un dialogo virtuale fra le diverse culture, catalogato, restaurato, preservato per future generazioni, porta inevitabilmente con sé la responsabilità di riconoscere non solo la bellezza e il significato culturale delle opere, ma anche le storie che portano con sé, incluse le circostanze complesse o difficili che potrebbero averne segnato l’acquisizione. È comprensibile che chi non si è mai occupato di protezione di beni culturali si chieda se vi sia qualcosa di cui il collezionista privato debba rimproverarsi, specialmente alla luce di una crescente sensibilità storica e morale riguardo ai temi del furto culturale e dell’oggettivazione delle culture africane.

È necessario riflettere su come queste opere siano arrivate in Europa prima di giungere a noi. Anche se abbiamo acquistato molti pezzi da famiglie europee che avevano perso il legame con l’arte africana, quelle famiglie potrebbero averli ereditati in un periodo in cui le pratiche coloniali e la violenza erano comuni. Quello che è certo è che queste opere sono giunte integre fino a noi e un giorno potranno rientrare nei Paesi d’origine, solo perché sono state apprezzate, giudicate interessanti e meritevoli di essere raccolte, cioè di valore, altrimenti i bronzi sarebbero stati fusi e il resto deperito e disperso. Non rimproverarsi significa forse accettare la complessità di queste vicende e scegliere di trasformare un potenziale senso di colpa in un impegno costruttivo, creando un ponte tra il possesso di un patrimonio culturale e il rispetto delle sue origini.


© Famiglia Moser
I coniugi Moser

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