Oregiefregie Band: live in Mendrisio!
Sono ormai rodati e hanno anche un Nissan verde per stipare strumenti e attrezzatura, oltre a loro stessi. Roba da matti
Di Giorgio Genetelli
Pubblichiamo un racconto apparso su Ticino7, allegato a laRegione.
Gli Oregiefregie band erano ormai rodati e avevano anche un Nissan verde per stipare strumenti e attrezzatura, oltre a loro stessi. Se stavi seduto a destra contro il finestrino, potevi veder giù sotto il culo il copertone che girava e nel contempo goderti il profumo dell’asfalto da quella specie di cratere nella carrozzeria smangiata dalla ruggine. Il Rena aveva preso la patente da poco e guai a togliergli il volante. Davanti stava l’Emme, di solito dalla parte del cratere, e in mezzo il Uoter. Gli altri due filavano dietro, tra stanghe di microfoni e sobbalzi spaventosi: il Max piegato in due dall’altezza puberale che cresceva a ogni cambio di luna, il Marco incassato tra i monitor con gli occhiali appannati. Ogni frenata era un dramma, tra il rumore, la puzza di copertone e i piagnistei dei profughi dietro. Anche in curva non era il top.
Una tipa che conoscevano gli aveva chiesto di suonare a Mendrisio, versante ospedale neuropsichiatrico, per l’ultimo dell’anno. Arrivarono sul posto congelati e con immenso anticipo con la scusa di dover montare il palco con la dovuta cura, in realtà per vedere i matti. Si scaldarono alla mensa, trippa in umido che l’Emme non mangiò perché gli faceva ribrezzo e si accontentò di una mela con birra senz’alcol. Matti ce n’erano, ma composti. Una delusione. Dissero che alla festa, nella sala del teatro, sarebbero stati in molti, tutti quelli governabili.
Pareva proprio la sala grande del Palace Hotel. Certo, i nostri non avevano Jack e Elwood, ma neanche Cab Calloway, e il repertorio era il solito: marcette, walzerini, qualche robetta veloce e alcuni pezzi cantautorali. Tutta roba scritta da altri e adeguatamente maltrattata. Proprio come il pubblico, i matti che stanno ai margini del mondo e lo cambiano ogni giorno, ma sono altri a scrivere testi e parole senza ascoltare. Almeno ai nostri suonatori non davano pastiglie per farli calmare.
A un certo punto della serata salì sul palco un capellone con un flicorno e chiese se poteva suonare la batteria. – È il mio maestro! – esclamò il Rena. Cioè, aveva preso qualche lezione quando il capellone stava ancora in giro. Con deferenza cedette il posto al Maestro che si lanciò in un rullio sterminato e gli altri a cercare di stargli dietro. La batteria avanzava sobbalzando sotto i colpi e sarebbe caduta dal palco se il Rena non si fosse inginocchiato a trattenerla. Appena finita quell’esibizione di forza, il Rena chiese al Maestro di dire qualcosa al microfono, tanto per farlo andar via e riprendere il suo posto, calmando la batteria come se parlasse al gatto. Il Maestro brandì il microfono. – Teh, Giulio! Se te vegn miga su a sonaa te sé ’m bigol! Poi lanciò il flicorno contro la parete. Due infermieri saltarono sul palco e lo portarono via.
Ma l’intermezzo non placò la festa, anzi. I matti fecero trenini a più non posso – tranne quello che seguitava a percorrere a passi lenti il perimetro della sala e che lanciava uno sguardo severo quando transitava sotto al palco – e verso mezzanotte costò fatica spiegare che ormai la cosa si concludeva. Mentre caricavano la roba sul Nissan, un matto con una curiosa testa allungata chiese all’Emme se poteva andare con lui e per convincerlo gli disse che lui sapeva a memoria Cattedrali di pietra e sassi di Fausto Leali. Alla terza ripetizione della domanda, l’Emme gli disse che sì, vieni pure. Il matto stette lì un attimo a pensare e poi disse che lui doveva prendere delle pastiglie e quindi non poteva.
Tornando, con il solito freddo della madonna e l’instabilità in curva, si resero conto della grandezza dell’esibizione. Roba da manicomio, proprio.