Disavventure Latine. Ecuador: calcio, caos ed Ecuavolley

Eccoci alla nona e ultima tappa del viaggio nel Paese di Montalvo. Qui non si parla però di letteratura, ma di sport… altra grande arte latinoamericana

Di Roberto Scarcella

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione

Mi avevano detto che non c’era niente da vedere, che era brutto, sporco e cattivo. Che si mangiava male e beveva peggio. Che mi sarebbe costato troppo e mi avrebbe dato indietro poco. Che a un certo punto mi sarei chiesto – arrabbiato con me stesso – perché non il Brasile, le Canarie, l’Appenzello Interno. O il Molise. E che se volevo rischiare la pelle potevo almeno evitarmi un volo di dodici ore, visto che ci si può far ammazzare molto più vicino, se proprio ci tieni. Mi avevano detto che non si poteva uscire la sera, e forse nemmeno di giorno, che non si poteva prendere un autobus né entrare allo stadio. Così sono andato a vedere davvero com’è, l’Ecuador: senza ignorare i pericoli (che ci sono, eccome), ma abbracciando – ricambiato – tutto il resto. Ne è valsa la pena. Ve lo racconto qui.

Dicono che per capire un Paese devi capire il suo sport nazionale. Non solo qual è, ma come lo giocano e perché è nato lì e non altrove. O magari perché ha attecchito lì, proprio in quel modo lì, anche se magari è stato inventato a migliaia di chilometri di distanza, arrivato, chissà come, da chissà dove. È quasi sempre vero: il calcio, inventato dagli inglesi, una volta arrivato in Sudamerica ha preso altre strade, tutte diverse: ognuna racconta un Paese talmente bene che in Brasile, ad esempio, se un trattato di sociologia non include il calcio viene visto con sospetto anche – se non soprattutto – dagli accademici. Andando oltre il pallone, nulla ti fa capire quel caos chiamato Messico più di una serata passata a vedere la lucha libre, il loro amatissimo, chiassoso, luccicante e ultracodificato wrestling latino. Altrettanto si può dire della pelota basca, compendio di un pezzo di mondo e di un popolo talmente a sé da avere una lingua a parte, che non ha nulla a spartire con nessuno, ma proprio nessuno (per capirsi, lo spagnolo e il francese sono più vicini alle lingue indiane che al basco).

Da Quito alle Galápagos

Dopo aver visto tre partite di calcio in tre città e tre contesti molto diversi, credevo di aver iniziato a capire qualcosa dell’Ecuador. Ma era solo la superficie.


Foto © R.S.
Lo stadio olimpico Atahualpa

A Quito, la capitale, sono andato allo stadio Olimpico Atahualpa (ultimo re dell’impero Inca prima dell’arrivo degli spagnoli) per il derby universitario, quello tra U Catolica e Ldu Quito, l’unica squadra del Paese che è riuscita a vincere una Coppa Libertadores (la Champions League sudamericana). La partita, di livello modesto e stravinta 4-0 dalla Ldu, è stata più interessante sugli spalti che in campo, ma non – come pensavo – per un tifo particolarmente acceso. Anzi, lo stadio non era pieno nemmeno per metà e mancava (nel bene e nel male) quell’aria da “o la vita o la morte” che contraddistingue tanti derby sudamericani. Per divertirmi però è bastato girarmi. Dietro di me c’erano quattro, ma letteralmente quattro, scatenati tifosi dell’U Catolica: uno armato di tromba, due di tamburo e un altro della sola voce. Tutti con la stessa maglietta azzurra e la scritta “Banda Cammarata”, cioè loro. Non hanno smesso un attimo di suonare e cantare, in una sorta di jam session dove chiunque avesse voglia di urlare o fare rumore era benvenuto. Alla fine, un ragazzino con il senso del ritmo, una bacchetta prestata da uno della Banda, un seggiolino e tanta dedizione è stato adottato come il quinto del gruppo. Mi avevano detto di stare particolarmente attento, che poteva essere un ambiente pericoloso, invece era una sorta di sagra paesana con tanto di bebè vestiti con la tuta della squadra e la Banda Cammarata a fare rumore e colore.


Foto © R.S.
La “Banda Cammarata”

Tutt’altra musica a Guayaquil, dove sono andato a vedere la partita di Coppa Libertadores tra la squadra locale del Barcelona e i brasiliani del Palmeiras. Giocata di sera in una delle città più pericolose del Sudamerica, il suo contorno di tifo era decisamente meno rassicurante, a cominciare dalla curva del Barcelona, i cui occupanti, rigorosamente a torso nudo si lanciavano giù a turno a tutta velocità per le gradinate di cemento come se fossero sulla neve. Lì ho rivisto le esagerazioni e le follie del tifo brasiliano e argentino, della torcida e delle barras bravas. Era un tassello in più nella comprensione dell’Ecuador che ha trovato il suo perfetto contraltare nel calcio barrial delle Galápagos, e cioè un torneo dei quartieri su un’isola di 15mila abitanti con decine di squadre. Lì ho assistito a qualche minuto di Patria contro Tungurahua. I nomi li so perché, all’altezza del centrocampo, avevano legato le bandiere delle due squadre con tanto di nome sopra. Quella del Patria al centro ha un’aquila verde stilizzata e la scritta 1908, portandomi a ipotizzare che lì – in mezzo all’oceano Pacifico – il calcio sia arrivato, per qualche strano motivo, prima che altrove (il 1908 è anche l’anno di nascita del Lugano e dell’Inter). Per dire, il Bologna, la mitica Honvéd di Budapest e il Borussia Dortmund sono stati fondati un anno più tardi. Il Colonia addirittura quaranta. Il Tungurahua ha invece uno di quei simboli che sembrano presi da quei videogiochi tipo Pes che non possedevano la licenza per poter mettere quelli ufficiali.


Foto © R.S.

Pallavolo di strada

Tutto il contesto era strano, a partire dall’arbitro extralarge con il disegno di una tartaruga sul petto (simbolo dell’associazione arbitrale locale e di qualsiasi altra cosa alle Galápagos). Tra i vari cartelli appesi a bordocampo ce n’era anche uno con una frase motivazionale di Denise Andrea Pesantes Tenorio, orgoglio locale, prima e finora unica giocatrice delle Galápagos ad aver partecipato a un Mondiale di calcio. Però, più stavo lì, assieme a poche decine di spettatori (perlopiù parenti) e più non capivo perché il tifo, gli applausi e le urla arrivassero da oltre le tribune, da chi la partita non poteva vederla. Così mi sono alzato, sono andato nella piazzetta dietro al campo e ho scoperto l’Ecuavolley, una pallavolo di strada con una rete molto più alta (2 metri e 80 contro i 2,43 del volley maschile, pare per evitare le schiacciate) e dai tempi lentissimi, dove non succede quasi nulla, ma che a quanto pare nessuno si vuole perdere. Si gioca tre contro tre con un pallone da calcio (nel caso specifico con l’amatissimo e vecchio Tango), che già sembra assurdo. Quando però vedi che la palla la puoi quasi bloccare per poi rilanciarla entro un paio di secondi si arriva a un livello di surrealtà al quale è impossibile non abbandonarsi. È uno sport democratico, a cui possono giocare davvero tutti. E in cui i momenti comici si alternano ad altri quasi artistici. Il pubblico ride, applaude, commenta, dà consigli, si sente parte di qualcosa, qualunque cosa sia. Dicono che capisci davvero un Paese quando capisci il suo sport nazionale. A volte, però, ti avvicini anche quando non lo capisci.

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