Corpo e mente: come la musica agisce su emozioni e cognizioni
Ci fa ballare, rilassare, addormentare, correre, marciare… ma c’è di più: ascoltare musica, lo dice la scienza, agirebbe su apprendimento e memorizzazione
Di Mariella Dal Farra
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, inserto allegato a laRegione
Melodia, armonia, ritmo
La musica è l’arte di modellare il suono attraverso la melodia, l’armonia, il ritmo, il tono e il timbro. Queste forme sonore vengono riconosciute e “apprezzate” dal nostro cervello attraverso una sorta di “sistema estetico” innato, capace di generare emozioni e stati d’animo in corrispondenza dell’ascolto di brani musicali. Conseguentemente, “da secoli la musica è stata usata per impattare i processi mentali e influenzare le condizioni fisiche” (Bell, T. P. et al. Listening to classical music results in a positive correlation between spatial reasoning and mindfulness. Psychomusicology: Music, Mind, and Brain, 2016). Esempi eclatanti di quest’uso “strumentale” della musica sono per esempio le marce militari che accompagnavano gli eserciti in battaglia; la musica sacra che, seppure variamente declinata, è da sempre compendio di ogni forma di religione; la musicoterapia, approccio la cui efficacia è stata scientificamente comprovata nel ridurre i sintomi da stress (De Witte, M. et al. Music therapy for stress reduction: a systematic review and meta-analysis. Health Psychology Review, 2022) e quelli di tipo depressivo (Tang, Q. et al. Effects of music therapy on depression: A meta-analysis of randomized controlled trials. PloS one, 2020). In tutti questi casi, la musica agisce, seppure in diversi modi, sul nostro sistema emotivo, producendo effetti di vario tipo e ampiezza. Ma la ricerca indica che l’influenza esercitata dalla musica non è soltanto di natura emotiva: essa determina infatti anche delle modifiche a livello cognitivo.
Effetto Mozart
Nel 1993 una ricerca pubblicata su Nature (Rauscher, F. H. et al. Music and spatial task performance. Nature, 1993) evidenziò per la prima volta quello che successivamente avrebbe preso il nome di “effetto Mozart”. Lo studio era stato condotto su di un campione di trentasei studenti universitari e indicava una correlazione statisticamente significativa fra l’ascolto di un brano di musica classica (la sonata K. 448 di Mozart, appunto) e il punteggio ottenuto nell’esecuzione di un test di ragionamento spazio-temporale (ovvero la capacità di visualizzare l’immagine di un oggetto, di ruotarla e di trasformarla nella nostra mente). L’effetto era di breve durata, estinguendosi a distanza di dieci-quindici minuti dall’ascolto, ma risultava significativamente maggiore rispetto alle condizioni di controllo (musica minimalista o nessuna musica). Lo studio fu replicato l’anno successivo dallo stesso gruppo di ricercatori (Rauscher, F. H. et al. Listening to Mozart enhances spatial-temporal reasoning: towards a neurophysiological basis. Neuroscience letters, 1995), dando il via ad una pletora di ricerche volte a verificare l’affascinante ipotesi. L’idea che l’ascolto della musica classica, e di Mozart in particolare, potesse stimolare determinate abilità cognitive era così “buona da pensare” che scavalcò la recinzione degli addetti ai lavori per sfociare nella comunicazione di massa, divenendo presto una sorta di meme. Al contempo, in ambito accademico, i tentativi di replicare, e quindi validare, l’“effetto Mozart” faticavano a raggiungere risultati significativi, raffreddando progressivamente l’entusiasmo generato da quel primo studio.
Forma di sapere empirica
Allo stato attuale, la ricerca sembra convergere su ipotesi più trasversali, tali per cui la musica, e non solo quella classica, agirebbe su alcune funzioni cerebrali, da cui scaturirebbero effetti più specifici in relazione alle diverse abilità cognitive. In particolare, l’ascolto musicale stimolerebbe quella forma di sapere empirica, esperienziale che rimane, per così dire, depositata nel corpo: il tipo di intelligenza di cui ci avvaliamo quando per esempio impariamo a guidare l’automobile o a parlare in una lingua straniera, oppure a riprodurre una sequenza numerica su una tastiera. Gli psicologi lo chiamano apprendimento “procedurale”, “inconscio” o “incorporato” (“embodied mind”) e lo descrivono come complementare all’altro modo di imparare, quello “dichiarativo” e astratto. La musica giunge alla nostra comprensione attraverso la sollecitazione sensoriale dell’udito e poi riverbera nei nostri corpi, suscitando tipicamente il desiderio di muoversi, talvolta in maniera appena accennata (il piede che batte il ritmo senza che neppure ce ne accorgiamo) talaltra in modo più sofisticato e consapevole (la danza). Così facendo, la musica “accorda”, o se vogliamo sincronizza, corpo e mente, integrando attività mentale ed esperienza somato-sensoriale, il che darebbe indirettamente conto dell’“effetto Mozart” poiché apprendere “attraverso il corpo” implica una competenza specifica relativa alle coordinate spazio-temporali all’interno delle quali i corpi si muovono.
Musica incarnata
Uno studio appena pubblicato (Tschacher, W. et al. Audience synchronies in live concerts illustrate the embodiment of music experience. Scientific Reports, 2023) offre un suggestivo esempio di come la comprensione della musica avvenga in modalità procedurale o, se vogliamo, “incarnata”: centotrentadue spettatori hanno assistito a tre concerti di musica da camera (Ludwig van Beethoven, Brett Dean e Johannes Brahms) mentre i loro parametri vitali venivano monitorati. I tracciati così ottenuti mostrano un’evidente sincronizzazione della frequenza cardiaca, di quella respiratoria e dell’attività elettrodermica fra i soggetti. Sembra quindi che la musica, soprattutto quella classica, abbia fra le sue prerogative quella di “sintonizzare” le persone sia interiormente che in rapporto agli altri, facilitando di conseguenza anche i processi di apprendimento e di memorizzazione.