Kasserine. La resistenza dei pastori (seconda parte)
Termina il nostro viaggio a Semmama (Tunisia) dove è sorto un Centro culturale per affrontare i problemi di disoccupazione, siccità e sfiducia dei pastori
Di Sara Rossi Guidicelli
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
A fine aprile un piccolo gruppo di giornalisti ticinesi, di cui faccio parte, è stato invitato a partecipare a un festival in Tunisia, nel governatorato di Kasserine, nel centro-ovest del paese. Una zona desertica, un tempo abitata da popolazioni nomadi, che si sono sempre dimostrate restie sia alle invasioni cristiane prima, sia a quelle di stampo islamico dopo. Negli ultimi decenni le grandi opere di irrigazione e modernizzazione hanno reso sedentarie le varie tribù un tempo dedite alla transumanza per gran parte dell’anno. Oggi qui a Kasserine restano molte famiglie che vivono delle loro greggi, della raccolta delle olive, ma sono tutte alle prese con grossi problemi di siccità e desertificazione.
La prima parte di questo reportage è apparso la scorsa settimana (Ticino7 n. 19/2023).
© Sara Rossi Guidicelli
Il Centro culturale Jebel
Alloggiamo a Sbeitla, una piccola città ai margini della zona desertica e montagnosa di Semmama, un tempo chiamata Sufetula, che è stata per un periodo capitale bizantina al posto di Cartagine; resti ben conservati di templi, teatro e chiese bizantine lo testimoniano. Ogni mattina un bus ci porta al Centro culturale Jebel di Semmama, a venti minuti da Sbeitla, per il festival di arte e artigianato dal nome evocativo: La Fête des Bergers. Questa festa è nata nel 2011, anno della Rivoluzione dei Gelsomini, e in onore della Primavera araba si chiamava Fête du Printemps. Quando il Centro culturale non c’era ancora, la Fête des Bergers si teneva nel “deserto” (più corretto sarebbe dire steppa).
Nel 2018, il poeta impegnato Adnen Helali ha pensato di costruire un centro culturale per non racchiudere tutti i suoi progetti in così pochi giorni e per dare un luogo più riparato e attrezzato agli artisti e agli artigiani che partecipano alla festa. Ha regalato un terreno ereditato dal padre e ha cominciato a costruire pezzo per pezzo. Lo spazio è grande ed è aperto tutti i giorni. C’è un cortile interno, con portici ombreggiati e intorno alcune stanze che fungono da uffici, cucine, bar e atelier. A fianco dei laboratori ci sono vari spazi di gioco per i bambini e di sport per i ragazzi. Sul retro si trova una grande arena per gli spettacoli. Le artigiane sono soprattutto le donne, che durante l’anno fanno vivere il Centro venendo qui a lavorare le stoffe, la fibra di sparto (una pianta locale molto diffusa), le erbe che raccolgono sulle montagne e con cui distillano oli essenziali. Una di loro ha creato dei pupazzi con materiale di scarto che decorano tutto il centro e i suoi dintorni.
Mentre ci preparano pranzi sontuosi, mi dicono: “Questo Centro culturale ci ha cambiato la vita, si guadagna qualcosa e ci troviamo per molte attività. A casa abbiamo gli animali e qui la gente. Ci occupiamo di chi arriva, però questo significa per noi anche occuparci di noi stesse e dei nostri figli”.
Adnen racconta che, quando ci saranno più finanziamenti, vorrebbero costruire una foresteria, con delle stanze per promuovere un turismo alternativo. “Facciamo le cose piano piano, una alla volta. Per ora il turismo in Tunisia si concentra sulle coste, ma noi vorremmo invitare qui chi è davvero interessato a scoprire il nostro pezzetto di mondo, con le sue bellezze e i suoi messaggi da offrire. Vogliamo dare un posto a chi non cerca l’albergo con piscina vicino al deserto, né il villaggio turistico, bensì un incontro autentico”. Adnen ha gli occhi che luccicano di entusiasmo mentre guarda i bambini, i giovani intorno a lui, che un giorno forse dovranno decidere
tra morire in mare o nel deserto. “Questo Centro serve per la nostra resistenza”.
© Alan Koprivec
Il poeta Adnen Helali a Tunisi.
Questione di fiducia
Alla Fête des Bergers si incontrano i “pastori di tutto il mondo” , spiega l’ideatore. “I pastori fanno una festa perché hanno diritto alla filosofia e all’arte, condividendole con altri nomadi innamorati della terra. Ci siamo sentiti abbandonati, si è lasciato che i fondamentalisti islamici si installassero sulle nostre montagne. Ma noi abbiamo costruito una fortezza per la nostra anima, che protegge la libertà e l’esistenza di noi tunisini. I terroristi ammazzano e piazzano mine sul nostro cammino, ma non possono impedirci di cantare. È una vittoria per la vita”.
Quest’anno in programma ci sono spettacoli catalani, pakistani, ticinesi, argentini, messicani e naturalmente berberi e tunisini. La scorsa settimana avevamo parlato di Piera Gianotti Rosenberg, attrice di teatro e allevatrice di capre. Un altro ospite ticinese della festa è Juri Cainero, figlio di Gardi Hutter, che con la compagna Beatriz Navarro ha fondato la compagnia di danza Onyrikon. Juri e Beatriz sono già arrivati da una settimana e hanno svolto una residenza per una creazione insieme a un gruppo di musicisti berberi e ad alcuni ragazzi del luogo che va in scena nei giorni del festival. Dopo la Fête des Bergers, partiranno in tournée sulle tracce dell’antica transumanza dei pastori.
Uno dei giovani break dancer coinvolti nel progetto di residenza mi dice: “Prima ci ritrovavamo di nascosto a fumare, invece da quando c’è il Centro veniamo qui a fare sport, atelier di formazione, aiutiamo a organizzare varie manifestazioni culturali. La collaborazione con la compagnia Onyrikon di Juri Cainero e Beatriz Navarro per noi è stata un’occasione unica di mostrare chi siamo e di imparare chi vorremmo essere. Dopo la festa porteremo nella regione lo spettacolo per una settimana e mostreremo alla nostra gente cosa abbiamo fatto. Questo ci rende fieri perché vorremmo passare ai nostri coetanei una speranza, una fiducia che qualcosa si può fare”.
© Sara Rossi Guidicelli
Lo sguardo penetrante di un’anziana donna locale.
Acqua
In questi giorni si suona dappertutto, è facile che nascano canti improvvisati tra musicisti di paesi diversi durante le attese, tra uno spettacolo e l’altro. Alla fine della performance di Juri e Beatriz, uno spettacolo itinerante, tra il cortile, i campi e l’arena, il pubblico si unisce agli artisti per una vera festa danzante, come un antidoto all’aridità che ci circonda. Passato il momento di comunione, prima di ripartire, il Generale ci porta a fare una passeggiata. Ha combattuto i terroristi in questa zona, da qui il suo nome. È rimasto ferito durante uno scontro e tuttora si muove solo con le stampelle. Fin dall’inizio del festival ci è stato al fianco, insieme a vari soldati della Garde Nationale che protegge queste terre considerate zona rossa di pericolo di terrorismo. “Quando ero piccolo qui era tutto diverso. Era più verde, c’erano più orti, meno fichi d’india e il bestiame poteva nutrirsi di erba”. Ora di erba non se ne vede. Mancano precipitazioni da tre anni ormai, le irrigazioni sono razionate così come il consumo di acqua privato. Le pecore lasciano piano piano il posto alle capre, per chi resiste – o non può fare altrimenti – e continua a vivere di agricoltura. Le capre possono mangiare le foglie dei fichi d’india, ma per sostituirle al foraggio bisogna togliere le spine con una fiamma ossidrica, che ovviamente consuma e ha dei costi.
Entriamo in una casa di pastori a bere un caffè. Fuori, una nonna sta cuocendo il pane in una padella sopra a un fuocherello. Dentro, non ci sono quasi mobili. Solo un divano, una piccola cucina, i letti. Le signore insistono per regalarci i loro prodotti
di artigianato: un cesto per la frutta intrecciato con i fili fatti di fibra di sparto e il centrino all’uncinetto da mettere nel cesto per non sporcarlo. Quasi ogni casa ha il suo pozzo, spesso scavato senza permesso. Arriva un trattore con la cisterna dell’acqua: il Generale ha un terreno con gli ulivi e ha dovuto comprare l’acqua per irrigarli. Sospira, apre il cofano della sua automobile e da una cassa con il ghiaccio tira fuori delle bottiglie. Ci offre da bere il bene più prezioso.
© Aron Anselmi
Juri Cainero e Beatriz Navarro in compagnia di un musicista locale.
TRE DOMANDE PER JURI CAINERO E BEATRIZ NAVARRO DELLA COMPAGNIA ONYRIKON
Voi siete stati invitati qui per una residenza artistica e siete arrivati a Semmama una settimana prima dell’inizio della Fête des Bergers. Come avete lavorato?
“L’organizzazione del Festival ci ha chiamato per un lavoro interculturale. Siamo arrivati con alcune idee per la creazione, da sviluppare sul posto per una collaborazione con un gruppo di musicisti locali e un altro gruppo di sei ragazzi cresciuti qui e interessati alla danza. Ci siamo incontrati, prima di tutto. Abbiamo provato ad ascoltarci gli uni gli altri e a costruire insieme qualcosa. Soprattutto forse a comunicare, prima ancora che a costruire. Con i musicisti è stato più facile: sono un gruppo affiatato abituato a stare in scena con un senso teatrale. Abbiamo trovato insieme i momenti da condividere, piuttosto in fretta. Con i ragazzi è stato complesso, interessante. Li abbiamo conosciuti quando siamo arrivati, hanno meno di vent’anni, fanno break dance per piacere da molto tempo ed erano orgogliosi di mostrarci le loro performance. Abbiamo cercato di valorizzare il loro piacere ma anche di portarli un po’ più in là, sperimentando qualcosa di diverso. Ascoltarsi. Frugarsi dentro. Tirare fuori. Esprimere. Ascoltare. Comunicare. Porgere. Stare attenti. Fidarsi”.
E come è andata, alla fine?
“Non siamo ancora alla fine. Abbiamo appena debuttato con lo spettacolo, e questo è l’inizio. Domani partiamo in tournée in tutta la Tunisia. Però abbiamo raggiunto qualcosa di prezioso. Li abbiamo visti cambiare espressione, concentrarsi come all’inizio sembravano non riuscire. All’inizio dovevamo fare lunghe pause, perché non sostenevano il ritmo di lavoro. Il danzatore ha bisogno di grande rigore, e tutti insieme abbiamo fatto questa esperienza: aspettarsi, accordare il passo gli uni agli altri. È vero che mancano molte cose materiali qui, ma ci ha colpiti la fraternità presente e una capacità di stare al mondo, stare in piedi con quello che c’è, come un savoir faire con l’essenziale che ci ha insegnato molto”.
Qual è il senso di una collaborazione del genere, in una zona così bisognosa? L’arte è davvero il punto da cui partire?
“Non crediamo che con il nostro spettacolo gli abbiamo cambiato la vita. Però qualcosa succede; come succede a noi di diventare più ricchi con questo incontro, anche loro trovano un senso in questa collaborazione. Riuscire a portare a termine qualche cosa di difficile, di cui essere fieri, qualcosa che li unisce in gruppo e rafforza i legami. Eravamo lì a casa loro, ora andremo in giro per la loro regione, che di solito è oggetto di critiche o compassione. Qui si è bombardati dalle immagini di un Occidente desiderabile e noi siamo rimasti nei loro luoghi, abbiamo danzato nei campi e al Centro di Semmama, abbiamo coinvolto la musica e le danze locali, perché valgono quanto qualsiasi altro atto artistico di qualunque altro posto. Il rischio di arruolamento da parte dei terroristi è presente in tutta la zona; l’arte può rafforzare la percezione di sé e dunque l’idea che ogni vita può far parte del mondo e lo arricchisce”.
© Sara Rossi Guidicelli
La giornalista di una radio locale.
© Sara Rossi Guidicelli
Uno spettacolo di clown entusiasma il pubblico più giovane.
© Sara Rossi Guidicelli
Un suonatore di flauto berbero.
© Sara Rossi Guidicelli
Una moschea.