Il vento di Spotorno: parole e versi dal mare

“Un ragazzino tutte le mattine alle sette passa in bicicletta con una cassetta di sardine e canta ‘Come prima’. Ci fa svegliare”

Di Alberto Nessi

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione.

Domani parto per Spotorno. Ed ecco che mi capita in mano, dal piccolo mare della mia scrivania, un relitto approdato allo scoglio: un’agenda color sabbia, proveniente dalla Cartolibreria P. Romerio, Locarno, Piazza Grande. Che sarà mai, questa sirena cartacea degli anni Cinquanta del secolo scorso? Ci sono appunti stilati di fretta con la penna a inchiostro.
“Domenica 12. Prova la mattina. Mirandolina è su di forma, ed è bella. La sera andiamo all’Oratorio a prendere i costumi. Lunedì 13. Agitazione prima della recita. La sera prova dei costumi. Non voglio fumare ma non riesco a farcela perché si fa il secondo atto e io non faccio niente. Mercoledì 15. Recita. Non mi sono mai fatto così bene la barba! Successo”.
Il pensiero va alla Scuola Magistrale. La mia breve carriera di attore, la Locandiera di Goldoni, il mio compagno – che è già ombra – con il vestito da marchese d’Albafiorita sul palco dell’Oratorio. E lei, Mirandolina, che sembrava la Lucia del Manzoni? È ancora viva?
“Gennaio 31: Il mio personaggio è quello del Conte e io sono portato a drammatizzarlo, a prendere sul serio i suoi amori che non sono che un gioco mondano, leggero. Sento il personaggio, ma lo sento in una maniera sbagliata. Capisco che Goldoni è difficile da recitare, perché bisogna raggiungere un grado di artificiosità senza mostrare di esser artificiosi. Non sono fatto per recitare Goldoni”. Questo appunto, scritto da adolescente, mi fa pensare, oggi, a Giacomo Leopardi, che dice male dell’affettazione. Poi scorro la mia agenda-relitto e arrivo ai primi giorni di agosto.
“Vado a Chiavari con Angelo, sulla sua Gilera. Casco e giaccone di pelle del Peppo, a dormire in casa di Angiulin ed Elide. A mangiare un po’ qui, un po’ dallo zio di Angelo. Mi piace. La prima volta che vado in mare devono tirarmi fuori. Belle ragazze.
Vado a Montegli, paese nativo di Angelo. Bino, sterratore, ci parla di un’Italia nuova che deve nascere e fuma le Alfa. Parla convinto di ciò che dice e la sua faccia ha il colore dei mattoni cotti, è rugosa e simpatica. Bestemmia e beve un vinello bianco che sa di niente. Anche noi ne beviamo. Ha lì pronta una cassetta di pesche per la vendita ma vuole che ne mangiamo, non gliene frega niente se non le vende. È socialista. Dice che dovrà venire il momento che una parte degli italiani, quelli che gli mangiano il pane e non fanno niente, dovrà scomparire. Verrà il momento. Suona la chitarra. Mi dicono che l’ha sempre portata con sé, anche in guerra. Una sera andiamo a una festicciola; c’è un’americana che suona la fisarmonica. Bel paese, la Liguria, terra di sole e di pesche, di belle ragazze e di colori caldi, di costruzioni d’un’architettura quasi navale. A Riva c’è una ragazzina che mi guarda con occhi sbarrati e che mi piace. Giriamo con la moto Sestri Levante, Rapallo, Santa Margherita, Portofino ecc. Sotto la nostra finestra c’è tutte le mattine il mercato del pesce. Un ragazzino tutte le mattine alle sette passa in bicicletta con una cassetta di sardine e canta ‘Come prima’. Ci fa svegliare”.
“Aprire una pagina di Sbarbaro è aprire una finestra sulla Liguria terra di sassi e di acque d’un infinito celeste, terra di mediterranei aromi e di tanfi portuali – terra di ozi e di traffici senza respiro, terra di fiori, di fatiche, di sudore. Una Liguria, nei libri di Sbarbaro, così autentica, da diventare un’allegoria del mondo, dico di tutto il mondo. E pochi come Sbarbaro hanno saputo vedere il mondo con occhio appassionato e disincantato”, scriveva Giorgio Caproni, pochi anni prima della mia giovanile scorrazzata in Gilera, aggrappato alla schiena di Angelo.


© Shutterstock

***

Stamattina, prima di partire metto nello zaino qualche libro e do un’occhiata all’angolo della mia biblioteca dove conservo cose preziose. Mi balza all’occhio un volume formato grande, copertina di cartone color violetta. Sul frontespizio: AUTOGRAFI di alcuni poeti italiani contemporanei, scelti da Falqui per l’editore Colombo. Data di edizione 1947.
Sfogliandolo, mi soffermo su “Terra” di Camillo Sbarbaro, poesia presa da Pianissimo, il secondo libro di versi del poeta al quale mi propongo di dare la caccia sulla Riviera di Ponente, perché sento di avere qualcosa in comune con lui, forse l’anelito di andare incontro agli altri. In quegli endecasillabi c’è già tutto il poeta ligure amico di Montale (o meglio quasi tutto, manca lo Sbarbaro “maledetto”): “Tutto quello / che vedo è come per la prima volta”. Una dichiarazione di poetica che vorrei far mia. Conoscevo già il testo. Ma ciò che colpisce è la grafia minuta, con la quale l’autore ci presenta “gli aspetti più umili e consunti” della realtà, la sua “attrazione irresistibile per le minime esistenze”, come afferma lui stesso nei frammenti di prosa dei Fuochi fatui. Una grafia quasi da bambino.
I primi successi del poeta furono la pubblicazione di alcuni sonetti su “Pagine libere”, del nostro Francesco Chiesa originario di Sagno: paesino vicino a quello, ancora più piccolo, dove abito oggi. Dunque c’è un filo sottilissimo, segreto, sotterraneo che mi lega a lui, se si vuole stabilire un rapporto storico-geografico fra quelli che si ostinano a scrivere versi. Ma temo che sia un rapporto tirato per i capelli, inventato dalla mia ammirazione per il ligure.
Perché lo ammiro? Perché le poesie di Pianissimo (pubblicate nelle edizioni della rivista “La Voce” nel 1914 e ripubblicate quarant’anni dopo, ma facendole precedere da una nuova redazione profondamente mutata rispetto a quella vociana) e le prose poetiche di Trucioli (1920) sono fra le opere più suggestive del Novecento italiano. E si muovono su quella linea, estranea all’ermetismo, che io prediligo. E perché questo poeta, appartato e silenzioso, dice cose nelle quali anch’io credo; come, nella lettera del 23 gennaio all’amico Angelo Barile: “Al poeta spetta dire cose nuove, mai dette, o almeno mai dette a quel modo”.
Prendiamo, per esempio, il testo di “Talor mentre cammino per la strada”: c’è il tema, baudelairiano, dell’estraneità agli altri uomini. Ma Sbarbaro lo coniuga in modo originale, descrivendo espressionisticamente i volti della folla che incrocia nel suo vagabondare: le “fronti calve dei vecchi”, le “facce volpine stupide beate”, le “facce ambigue di preti”, le “pitturate / facce di meretrici”.

***
Stanotte ho sentito il mare, che non posa mai, non tace mai. Il rumore del mare la notte inquieta, il mattino culla. Ora lo vedo da vicino, con il fronte delle onde che avanza senza fretta e deposita spume bianche sulla battigia; ma improvvisamente si rompe l’idillio e mi viene in mente l’altra spiaggia del Mare Nostrum, infernale, dove hanno trovato corpi senza vita, che nessuno ha soccorso nella notte tempestosa di Cutro, pochi giorni fa.
Mi siedo su una panchina appoggiata al tronco di un pino d’Aleppo, che fra i pini di Spotorno credo sia quello più soggetto al contorsionismo. Cercando il sole si storta, aiutato dal vento: al quale è intestato il festival degli aquiloni venuti qui da ogni dove (come belli quelli che precipitano multicolori, ma come orribili quelli a forma di pupazzo!).
Il vento. Che immediatamente richiama Shelley e la sua ode al vento di Ponente. E Shelley, a sua volta, fa volgere il pensiero all’altra Riviera, quella di Levante: alla spiaggia sulla quale, una mattina di luglio del 1822, fu trovato cadavere il grande poeta inglese, vittima di un naufragio nel golfo di Lerici. Che poi fu arso sulla sabbia mentre tre suoi amici, in un romantico rituale pagano, versavano sul fuoco incenso, sale e vino.
Questo vento, che ora m’investe qui sul lungomare, mi porta non il tumulto glorioso delle armonie di Shelley, ma sentore di nafta; ma forse è solo la puzza delle vernici con le quali gli operai stanno ripassando le intelaiature e le cabine dei bagni, in vista della stagione balneare. Questo vento, dal quale un po’ mi difende l’amico pino dal grosso tronco di corteccia screpolata, ha ispirato altri poeti liguri della stagione post-sbarbariana: come Giuseppe Conte (niente a che fare con l’uomo politico) in questi versi:

Il vento bisognava sentirlo sul
mare alzare i marosi, stracciare
le nuvole e ritesserle, staffilare
le alberature, rauco, fiorito di
salino, buio, inumano.

Vento inumano. Come quello che ha appena scatenato la tempesta in un’altra parte del Mediterraneo, distante più di mille chilometri da qui, dove continuano le stragi dei migranti. Ma non è il vento a essere inumano, come dice il poeta dalle reminiscenze mitologico-romantiche. È l’uomo che è disumano. È la politica che è disumana, se non sa salvare le vite di bambine e bambini innocenti.

***

Stamattina leggo sui giornali:
“Dunque ci risiamo. Il mare sta ancora restituendo i corpi dei bimbi innocenti annegati lungo la spiaggia di Cutro, e già ne ingoia altri poche miglia più in là”.
“Si riempie di nuovo di morti il Mediterraneo sotto gli occhi inerti delle autorità costiere di tre Stati”.
“Aveva addosso vestiti nuovi, che la mamma gli aveva fatto mettere in vista dell’arrivo in Italia, il bambino di cinque anni il cui corpo è stato recuperato l’11 marzo nel mare davanti a Steccato di Cutro”… Ma qui nessuno legge i giornali. Portano a spasso i cani. Tutti insieme, il sabato e la domenica, come in una sfilata di moda. Una specie di rituale narcisistico sul lungomare. Cinomania. Forse perché è più facile voler bene a un cagnetto che a un essere umano.

***

Oggi la passeggiata comincia con le scritte pubbliche. Al Villino Adele, leggo su una targa, in area sorvegliata con allarme collegato e intervento armato 24 ore su 24: “A ricordo del soggiorno di sua Altezza Reale Ferdinando Umberto Filippo Adalberto di Savoia Genova, Principe di Udine, Duca di Genova, Senatore del Regno d’Italia”. Troppi nomi e titoli, per la sobrietà che mi accomuna al poeta di cui sono sulle tracce. Il pensiero va alla scritta anarchica, sobria, che ho visto nello squallido sottopasso della stazione, dove alloggia un escluso.
Poco oltre, all’Hôtel Miramare, leggo: “È un amabile giorno di sole, c’è un mare turchino e io siedo a scrivere fuori sul balcone, giusto sopra la spiaggia. 16 novembre 1925 D.H. Lawrence”. Penso a L’amante di Lady Chatterley, che Lawrence in parte scrisse proprio qui e che io leggevo di nascosto alla Magistrale, con il libro sotto la predella del banco, mentre il professore di pedagogia straparlava dell’educazione ad Atene e a Sparta. Me l’aveva passato un compagno di trasgressione, anche lui già in ombra. Sulla facciata del Municipio, due targhe: una ricorda il garibaldino che “lasciò nome glorioso nell’epopea dell’italico riscatto”; l’altra la “liberazione dall’oppressione nazifascista” dei giovani che “hanno dato la vita per un mondo migliore”.
Si vede il viso sofferente di un partigiano che spezza la catena e il mio pensiero va a Bino, lo sterratore di Montegli che suonava la chitarra: ma l’Italia nuova che lui sperava non è venuta. “Verrà il momento”, diceva…


© Shutterstock

***

In un bar del centro chiedo di Sbarbaro e una ragazza mi dice: – Sì. La maestra delle elementari ci faceva studiare a memoria i suoi versetti. Le chiedo quali. Non ricorda. Forse la poesia che comincia:

La bambina che va sotto gli alberi
non ha che il peso della sua treccia,
un fil di canto in gola.

La ragazza del bar ha proprio detto: versetti. Un termine che di solito si usa per la Bibbia. Ma nessuno è più lontano di Sbarbaro dalla religione praticata. Piuttosto, la sua è una forma di attenzione religiosa per persone comuni e cose minime, alle quali nessuno bada. Come i licheni, che lui raccoglieva e collezionava. Ma nel bar, di fronte a questa ragazza, constato che la sua poesia non ha lasciato che una traccia effimera, labile come acqua sulla sabbia. Nel borgo antico, “creuse” in salita, limoni, strelitzie e un gran cespuglio di Echium candicans. Gabbiani che s’inazzurrano in alto e si posano sulle rovine del castello strangolato dall’edera. E al numero 9 del “caruggio” (questo il termine usato dal passante che interpello) la casa di Camillo Sbarbaro,“estroso fanciullo”- la definizione è di Montale – come si legge nella lapide che lo ricorda. La casa ha le imposte chiuse. Inaccessibile. Intravedo il terrazzino, visto in certe foto documentarie, e m’incanto davanti all’azzurro del cielo. L’azzurro delle sue poesie, anche quelle cupe. Ma ciò che più m’impressiona è il silenzio di questa parte della città: disertata dalla massa dei turisti che rumoreggiano davanti ai negozi del centro.

***

Nella pensione dove soggiorno c’è la casalinga zoppa di Lecco, venuta al mare in bassa stagione a respirare l’aria buona; la magra autistica che si disinfetta continuamente le mani, non parla con nessuno e si toglie la mascherina solo per mangiare; l’adolescente pallido che quando parla con un adulto muove la gamba avanti e indietro come fosse interrogato dal professore; la maestra in pensione che beve avidamente il suo quartino di vino rosso; la vedova del bancario innamorata di Berlusconi; l’operaio che sembra Jack Palance; il vecchissimo di Alba che si muove con il deambulatore, accompagnato dalla moglie storta come un pino d’Aleppo. Ma la mia prediletta è Bianca Rosa da Dalmine. Ha compiuto ottant’anni, si muove a stento, parla in modo confuso, ci mostra la foto con la torta del compleanno e si guarda in giro con innocenza. Come gli uccelli di Luciano De Giovanni, poeta ligure di umile famiglia:

Gli uccelli
possono volare
perché sono
innocenti
non è questione
d’ali.

***

Stanotte il mare si è lamentato a lungo. Le onde portavano dall’altro mondo gli ultimi gemiti degli annegati, il rotolio dei corpi senza vita, dei rottami, delle conchiglie trascinate dalla risacca. Il vento urlava. Gli aquiloni colorati lasciavano il posto agli uccellacci del lutto. Questo mare, così inquinato, che ci illude con la bellezza del suo azzurro smeraldo, del suo “infinito celeste”. La bellezza è verità, ha scritto uno dei poeti che hanno amato questi paesaggi. Sì, ma la bellezza della superficie nasconde un’altra verità, che non si vuol conoscere: la verità racchiusa in quei gemiti notturni portati dalle acque.

Canta Shelley:
Vento, se l’Inverno viene, può tardare
troppo la Primavera?

Articoli simili