Scisma. Rock italiano senza il rimmel (o altri trucchi)
Quanto tempo deve passare per poter emettere un giudizio minimamente obiettivo sulla qualità di un disco? Nel caso di ‘Rosemary Plexiglas’ 25 anni bastano
Di Marco Narzisi
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
DICHI DAL RETROBOTTEGA – Rosemary Plexiglas (1997)
Ci fu un tempo, nei tardi anni Novanta, in cui il rock italiano, scevro da capezzoli stellati e stratificazioni di rimmel intorno agli occhi e ancora riscaldato dalle ultime braci del grunge, produceva lavori di indubbia qualità. Come Rosemary Plexiglas degli Scisma, il sestetto guidato da Paolo Benvegnù, una sorta di guru dell’indie italiano, che nel 1997 provava a tracciare un solco profondo, destinato però, ahinoi, a restare ben poco seminato in futuro, con il successivo “Armstrong” non agli stessi livelli. Il maestoso attacco orchestrale della title-track che apre l’album evoca quello che già da un paio d’anni risuona dall’altra parte dell’oceano (“Mellon Collie”, is that you?). Ma qui l’atmosfera è più trasognata che malinconica, sorretta dalla voce eterea ma mai stucchevole di Sara Manzo contrappuntata da quella di Benvegnù e punteggiata dal pianoforte che stendono un tappeto morbido sotto lo sferragliare delle chitarre. Chitarre che diventano spesso stridenti assecondate da ritmiche non lineari e cambi di tempo come da tradizione del miglior alternative e noise rock. È un sali e scendi di archi e pianoforte, distorsioni ed echi, accelerazioni nervose e distensioni oniriche, riff minimali ma incisivi. Sfuriate ‘rumorose’ come “Completo”, “Centro”, “Negligenza”, “Loop 43” si alternano a digressioni a tratti vagamente psichedeliche, con le atmosfere sospese di “Psw”, “Svecchiamento” e “Nuovo”, per citarne alcune. In mezzo, piccole perle come “L’equilibrio”, che ripropone il gioco d’intrecci fra chitarre e pianoforte e le due voci: un brano, a giudizio di chi scrive, decisamente sottovalutato. E i testi? Poetici, complessi, a tratti surreali o quasi nonsense ma mai fini a sé stessi o manieristici. Perfetta dimostrazione di come si possa fare del gran rock senza dover per forza mettere in mezzo ansie esistenzialistiche o, peggio, un “ribellismo” di facciata a base di frasi fatte e slogan triti e ritriti per dimostrare di essere veri rockettari. Un album che, a distanza di 25 anni, si direbbe, insomma, invecchiato benissimo. Resta solo un rimpianto per il prematuro scioglimento di una band che avrebbe meritato sicuramente un posto migliore nella scena italiana.