Il collasso del contesto. La guerra ucraina vista coi telefonini
Col conflitto oggi ognuno rischia di apparire guerrafondaio o filoputiniano agli occhi dell’altro. Un fenomeno ben noto a chi si occupa di media
Di Federica Cameroni
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
Non erano sufficienti le discussioni in merito alla pandemia, dove ognuno era l’idiota dell’altro che non capiva o non sapeva dove trovare le informazioni vere, e si faceva manipolare dai media mainstream o dalla controinformazione. Con l’invasione russa dell’Ucraina siamo alle solite: e così trovi utenti pronti a commentare il conflitto a colpi d’esaltazione, nemmeno fosse un episodio di ‘Game of Thrones’…
Stando ai social media, chi oggi si occupa di aiutare i profughi che fuggono dal conflitto ucraino, sicuramente delle altre guerre se ne è fregato, in particolar modo delle guerre in Yemen, Afghanistan e Siria. Che dire
poi dei dibattiti sulla No Fly Zone, o sul fornire o meno le armi all’Ucraina, che si riducono in gran parte all’accusa vicendevole di non pensare a chi sta sotto le bombe, asserendo che sia facile “avere quest’opinione dal proprio salotto”? Posto che di fronte a un paese che è stato invaso ci sia poco da star nel mezzo e che chi non si trova in Ucraina in questo momento sta probabilmente parlando dal proprio salotto, è falso pensare che chiunque si esprima lo faccia o per invocare la Terza guerra mondiale oppure per difendere Vladimir Putin. Perché pare diventato impossibile avere una conversazione online?
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Tutti assieme (appassionatamente?)
Le opinioni espresse in pubblico sui social network (in assenza di filtri atti a selezionare il pubblico di riferimento), sono destinate a essere fraintese. Le motivazioni sono spiegate da quello che in sociologia viene chiamato “collasso del contesto”, questo si verifica quando un eccesso di pubblico occupa lo stesso spazio e un’informazione destinata a un pubblico specifico ne raggiunge altri. L’origine del termine è attribuito alla ricercatrice Danah Boyd che parlò per la prima volta di contesti collassati in relazione ai primi social network (My Space e Friendster) nella sua tesi intitolata “Faceted Id/entity: Managing representation in a digital world” (2002). Il concetto nasce da una rielaborazione delle nozioni esposte da Erving Goffman nel libro La vita quotidiana come rappresentazione (1959). Goffman, mediante una metafora in cui paragona l’individuo a un attore di teatro, spiega strutture e dinamiche delle interazioni sociali. Gli individui in gruppo tendono a riadattare la propria immagine a dipendenza del contesto sociale in cui si trovano. In questo senso sono come attori che plasmano la propria performance a dipendenza del pubblico che hanno di fronte (audience), il quale è composto a sua volta da attori. Per esempio, non ci si esprime di fronte a sconosciuti nella stessa maniera in cui ci si esprime fra amici, o non si propone la medesima versione di sé ai colleghi che si propone in famiglia. Normalmente distinguere la tipologia di pubblico è un meccanismo automatico, ma esistono situazioni sociali dove i pubblici si sovrappongono e diventa più complicato (come i matrimoni, dove pubblici distinti – colleghi, famiglia, amici – si trovano uniti nel medesimo luogo). Joshua Meyrowitz in No sense Of Place (1985), applica queste teorie a radio e televisione, le quali, a causa di un pubblico variegato che ascolta un messaggio al medesimo momento, sono impossibilitate a differenziare linguaggio e comportamento all’occorrenza e devono elaborare strategie differenti.
Le tecnologie dei social media comprimono innumerevoli segmenti di pubblico in un unico spazio. Ognuno con norme, standard e livelli di conoscenza diversi, rendendo difficile utilizzare online le stesse tecniche usate per gestire la conversazione offline. Si tratta “di un numero infinito di contesti che collassano l’uno sull’altro”, come sostenne a proposito di YouTube già nel 2009 l’antropologo Michael Wesch nello studio “YouTube and You: Experiences of Self-awareness in the Context Collapse of the Recording Webcam”. Sociologicamente, quando un contenuto è molto condiviso avviene uno scontro fra migliaia di identità individuali. Maggiore è lo scontro più è alta la probabilità di annullare le motivazioni che stanno alla base della creazione del contenuto (il contesto, appunto).
L’estetismo della guerra
Ci sono moltissimi aspetti virtuali in questo conflitto che, oltre che via terra, si sta combattendo informaticamente tramite attacchi hacker e propaganda. Anche a causa dell’interferenza in eventi come la Brexit o le elezioni USA 2016, sono note le sofisticate attività di disinformazione del governo russo, di cui i social media si sono rivelati strumento fondamentale. La diffusione su larga scala dei discorsi cospirazionisti in voga negli ultimi anni – QAnon o il negazionismo dell’emergenza climatica e del Covid-19 – non sarebbe probabilmente mai avvenuta senza il martellante aiuto delle fabbriche di bufale russe. Le campagne di disinformazione che servono sia a destabilizzare gli oppositori che a unire i sostenitori, non si sono certo fermate. In Russia non si parla di guerra (pena il carcere per chi osa farlo), ma di operazione militare speciale, la notizia infondata secondo cui l’Ucraina era pronta a colpire i gruppi separatisti viene diffusa dai principali media così come la versione secondo cui sarebbero proprio i soldati ucraini a bombardare vicino agli ospedali colpendo i civili.
Il linguaggio dei social media sta avendo un ruolo chiave per la propaganda, per il racconto in tempo reale, per raccogliere informazioni utili o per le comunicazioni ufficiali. Il profilo Twitter dell’Ucraina pubblica meme e vignette contro Putin, Zelensky utilizza Instagram per parlare alla nazione o Twitter per lanciare messaggi agli altri capi di Stato. Il Centre for Information Resilience, attraverso un’analisi del materiale postato online, è riuscito a realizzare una mappa che mostra, per data, movimenti e azioni delle truppe russe.
La realtà diventa un gioco
Su TikTok, il social utilizzato dai più giovani, l’hashtag #Ukraine è stato visualizzato 34 miliardi di volte e i video inerenti alla guerra raggiungono milioni di visualizzazioni anche in poche ore. Brevissimi spezzoni, a volte commentanti a voce, ma più spesso tramite brevi didascalie, raccontano la quotidianità di chi è rimasto in Ucraina. Gli adolescenti mostrano i bunker in cui si nascondono; i bombardamenti vengono filmati e postati accompagnati da pezzi di canzoni; i militari sui loro profili alternano video di balletti, tipici di TikTok, a quelli di sparatorie dove compare la scritta “Ringraziatemi dopo” (Thanks me later). I filmati mostrano la guerra, ma i canoni con cui sono realizzati presentano i medesimi elementi e seguono gli stessi modelli di ogni video in tendenza. La leggerezza di fondo, la base musicale onnipresente, il lip sink (la sincronizzazione del movimento delle labbra con una canzone cantata da qualcun altro), le coreografie, le parole scelte per le caption (didascalie). Anche il ritmo con cui si consumano i contenuti resta quello di prima e la media è di 15 video ogni 30 secondi. L’elaborazione dei filmati non necessita particolari abilità di editing – come per esempio richiede YouTube –, né la cura nel fotoritocco di Instagram. Sono filmati immediati, grezzi e spontanei. In mezzo ai racconti reali e ai consigli su come curare una ferita da arma da fuoco, proliferano le fake news: raccolte di soldi false; live stream (dirette in tempo reale) fasulli, sia di utenti che fingono di trovarsi in Ucraina sia di finte operazioni militari; videogiochi fatti passare per scene del fronte; immagini della guerra in Crimea spacciate per riprese dell’ultimo minuto… A questa confusione si aggiunge l’attività dell’algoritmo che registra il crescente interesse delle persone per due temi: guerra e Ucraina. Quindi suggerisce loro nella sezione “For You” (per te) altri contenuti simili e non per forza attuali.
I belli e i brutti: il reale e l’irreale
Questa sovrabbondanza di informazioni rischia di rendere il conflitto “irreale” oppure, come riporta il Post.it e afferma il ricercatore Ryan Broderick: “Il messaggio corre il rischio di essere banalizzato e diventare un meme”. Il conflitto armato diventa affascinante. Una questione di estetica, come tutto, sui social. Mentre si esulta per le morti dei soldati avversari, i militari ucraini diventano eroi bellissimi che combattono senza paura. Si realizzano fancam – un filmato, montato o in diretta, di un personaggio famoso realizzato da un fan – sui soldati che salutano le loro compagne, o montaggi con carrellate di fotografie raffiguranti giovani ragazze in tenuta militare e aitanti combattenti. In sovraimpressione la scritta: “Ukraine Army I’m in love”. Didascalie brevissime che, insieme agli hashtag, rappresentano l’unica forma di contesto. Sappiamo che quel filmato è relativo alla guerra attuale perché l’hashtag dice #UkraineWar o #PutinWarCriminal. E poco importa se le fotografie di cui ci si è “innamorati” non hanno nulla che vedere con l’Ucraina oppure se le scene dei soldati e le loro compagne appartengono a un film. Perché scatti il meccanismo empatico che porta a condividere, non conta il vero e il falso. Conta la verosimiglianza.
In questo flusso continuo di informazioni senza contesto lo spettatore unisce i tasselli a proprio piacimento. Contestualizza le immagini partendo da presupposti personali che gli appartenevano anche prima dello scoppio del conflitto. Anzi, tramite una serie di sillogismi spesso sbagliati, si rafforzano. Un frame di una giornalista che parla indossando un caschetto, mentre dietro di lei dei civili camminano, diventa prova che la guerra non sia così violenta. Se i civili camminano non stanno bombardando in quel momento, quindi il caschetto non serve, quindi i media mentono, quindi potrebbero mentire su tutto e forse non c’è nemmeno stata un’invasione. Difficile restare lucidi in questa confusione tra reale e irreale, o restare zitti in questo incessante botta e risposta riuscendo a non mettere sullo stesso piano opinioni dettate da informazioni imprecise e quelle surreali. Intanto i social network si dimostrano ancora una volta strumenti comunicativi potentissimi, capaci di trasformarsi in arma, prima che una fonte di svago.
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Sulla controversa figura di Putin, su chi è pro e chi è contro, la grande potenza russa e le strettissime relazioni (e dipendenze) tra Russia ed Europa se ne parla da tempo: come in questo numero del nostro settimanale apparso nel dicembre 2013 (https://issuu.com/infocdt/docs/n_1350_ti7).