E se fosse sbagliato, quello che pensi?

Sono circa 70mila i pensieri che attraversano la nostra mente ogni giorno: e quasi sempre diamo retta a quel flusso di idee, senza nemmeno riflettere

Di Giovanni Luise

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato del sabato a laRegione

Una media di tremila ogni ora. E la stragrande maggioranza di questo imponente flusso mentale è costituita da pensieri negativi. Perché noi esseri umani si sa, innamorati della vita e fiduciosi in un radioso futuro, lo siamo da sempre. Fin dagli albori dell’esistenza l’uomo ha dovuto fare affidamento sulle sue elucubrazioni mentali per poter sopravvivere; se non si fosse fatto paranoie del tipo: ‘Si sta muovendo qualcosa dietro quel cespuglio?’; ‘Sarà mica un’orma di mammut questa?’; o ‘Forse è meglio cuocerlo questo frutto selvatico’, probabilmente noi non saremmo qui oggi. Charles Darwin ci ha insegnato che la specie destinata alla sopravvivenza non è la più forte né la più intelligente, bensì quella che meglio si adatta al cambiamento e l’essere umano si è perfettamente adattato all’evoluzione del mondo (forse fin troppo), ma la sua mente è andata di pari passo? Cioè, i pensieri si sono aggiornati oppure il nostro cervello è ancora convinto che una tigre dai denti a sciabola possa sbucare da dietro un semaforo e divorarci?


Una delle numerose riproduzioni del ‘Pensatore’ di Auguste Rodin (orig. 1880)

Ecco la lista (dei timori)

La verità è che sebbene possediamo l’immenso privilegio di dimorare nell’epoca storica più sicura mai esistita, continuiamo a vivere la vita proprio come i nostri antenati e cioè… uno spavento alla volta. Una dimostrazione? Il solo pensiero di stare in luoghi troppo affollati ci opprime, ma anche stare in quelli troppo isolati ci intimorisce. Siamo paralizzati dall’idea di poterci ammalare temendo tutte le malattie sopra il raffreddore. Sviluppiamo fobie per animali grandi un centimetro, evitiamo di nuotare al largo perché altrimenti uno squalo ci mozzerebbe una gamba, rimandiamo il più possibile i viaggi in aereo e quando ci saliamo sopra per prima cosa identifichiamo il possibile terrorista con la sua inconfondibile valigetta ventiquattrore. Abbiamo una fifa tremenda di fallire, di non essere accettati, di essere abbandonati, di parlare in pubblico, di essere giudicati perfino da chi non stimiamo e di ammettere che del surriscaldamento globale non ne capiamo molto. Siamo terrorizzati dalla morte, dalla solitudine, dall’invecchiare, dall’ingrassare e, ovviamente, abbiamo una fottuta paura di amare. Sia gli altri ma principalmente noi stessi. Ci spaventa l’idea di sposarci, di fare figli e di crescerli per cui abbiamo imparato a dileguarci appena sentiamo qualcuno pronunciare la parola “responsabilità”. Eppure sono solo pensieri.

Nella ragnatela della mente

Mi rendo perfettamente conto che dovrei stappare una bottiglia del più costoso champagne in circolazione per il solo fatto di respirare, e sono altrettanto consapevole del culo sensazionale che ho avuto nel nascere dalla parte fortunata del mondo, tuttavia la mia mente è capace di creare pensieri ansiosi per il solo fatto di dover scegliere il colore del nuovo divano perché, sbagliando tonalità, potrei rovinare l’arredamento correttamente abbinato nel corso degli anni. Ma perché è così automatico identificarsi con i propri pensieri? Studi recenti hanno dimostrato che il 95% dell’attività cerebrale è completamente al di fuori della nostra coscienza e che siamo in grado attraverso i comportamenti, le azioni e le decisioni (le rare volte in cui abbiamo il coraggio di prenderle), di controllare il rimanente 5% delle attività cognitive. Allora perché permettiamo a un pensiero entrato non per nostra scelta nel cervello di poter essere, come direbbe De André, “arbitro in terra del bene e del male”? Perché commettiamo l’errore di sopravvalutare la mente facendo fatica a considerarla per quello che in realtà è: un semplice organo. Come lo sono il fegato oppure la milza.

Il problema è che siamo convinti di essere noi i registi dei film mentali che ci facciamo, ma quando il lungometraggio non ha un lieto fine, diventiamo spettatori impauriti che non accettano finali alternativi finendo per scappare perlustrando in lungo e in largo mari, abissi e pianeti senza però essere in grado di rimanere dieci minuti da soli per provare a esplorare meglio noi stessi. Forse è proprio lì, tra un pensiero pauroso e un altro, che dobbiamo renderci conto di non poter avere il controllo sul nostro turbinio mentale semplicemente perché non l’abbiamo creato noi e va benissimo così. Perché se Tetris ci ha insegnato qualcosa è che alla fine, per quanto possiamo essere bravi, non tutti i pezzi si incastrano perfettamente ma non ha importanza se qualche volta perdiamo perché possiamo comunque fare una gran bella partita.

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