Sulla tela di Antonio Lüönd

“Chi sono, da dove vengo, perché sono qui? Attraverso la pittura ho sempre sentito una spinta interna che mi portasse delle risposte. E ancora le sto cercando”

Di Natascia Bandecchi

Pubblichiamo un articolo apparso su Ticino7, allegato a laRegione.

È nato a Lugano il 16 marzo 1947 sotto il segno dei pesci. Mamma Irma faceva la donna di servizio e papà Tommaso, spesso sporco di farina, il mugnaio. A 5 anni la vita l’ha segnato con un incidente di percorso invalidante che gli ha donato una sorta di ‘sesto senso’. Ha frequentato la scuola dei Salesiani per poi ficcarsi in tasca il tanto agognato – dai genitori – diploma di ingegnere edile. Come ogni anima artistica che si rispetti, si è fidato del suo intuito e ha seguito la sua passione: l’arte. Ha studiato a Parigi e Bruxelles, mischiandosi con artisti illustri della Belle Époque moderna. È testardo, ama cucinare e prendersi cura del suo giardino con la sua compagna di vita Hanny Bürgin. Sta leggendo il ‘Corano’, perché è curioso per natura.

“Sono passati quasi settant’anni, ma se chiudo gli occhi è come se fossi lì: ero steso nel lettino dell’ospedale, mi sentivo malissimo, volevo muovere le braccia ma non riuscivo. Era terribile”. Grazie al fiuto della mamma e alle cure in ospedale – dove sta per quasi due anni –, Antonio scampa a un’epidemia infantile che negli anni Cinquanta ha colpito molti bambini: la poliomielite. “Ho perso l’uso del braccio sinistro e ho una paresi a quello destro che rallenta i miei movimenti. Da una parte l’handicap ha portato dolore, frustrazione, mi sentivo diverso, discriminato, dall’altra parte invece mi ha donato una forza pazzesca. Forza che ho trovato per uscire dal tunnel; ho imparato ad arrangiarmi, a fare delle piccole, ma grandi cose, con una mano sola”. Antonio ha sempre imparato a conoscere i suoi limiti ma non si è mai fatto limitare da essi. “Vivo nel presente, il passato è passato. Desidero continuare a vivere facendo esperienze e, se possibile, mi piacerebbe lasciare delle tracce utili a chi voglia cogliere pezzetti di me”.

Scintilla creativa

Pablo Picasso diceva “l’arte scuote dall’anima la polvere accumulata nella vita di tutti i giorni”. Nella vita di Antonio ci sono stati pochi strati di polvere: sin da bimbo creatività e fantasia pare non gli mancassero: “Conservo ancora i libri di scuola pieni di miei disegni, mi dicevano che avevo talento e già a 7 anni avevo il tratto di ragazzi molto più grandi di me”. Antonio ha sempre vissuto il momento della creazione pittorica come una totale catarsi in un luogo senza tempo e senza spazio. Dopo un periodo trascorso a Bruxelles a studiare arte e tecnica pittorica fiamminga, Antonio se ne va nella città sulla Senna: “Ho frequentato l’Académie de la Grande Chaumière per tre anni e nel mentre bazzicavo l’atelier di Alberto e Diego Giacometti. Stare a Parigi significava nutrirsi di cultura internazionale e arte. Crescere, non solo artisticamente, ma anche umanamente”. Bohémien è la parola che meglio caratterizza il periodo parigino vissuto da Antonio. “La vita era stretta, avevo una cameretta in affitto con una piccola cucina, mangiavo brodini e baguette, tutto era contato fino all’ultimo centesimo”.


© Roberto Pellegrini; dalla serie ‘Ateliers’ di R. Pellegrini, © ProLitteris Zürich

Risposte & colori

Antonio non lesina racconti e aneddoti, si ricorda con entusiasmo e dovizia di particolari tasselli della sua vita e mi apre – per mia grande fortuna – la porta del suo atelier, zeppo di opere, caricature fatte su “buste volanti” di Angela Merkel, Alain Berset e Manuele Bertoli e un quadretto colorato con la scritta “Io non ho difetti. Io ho effetti speciali”. “Non faccio un’arte elitaria, costruita, non mi interessa arricchire una parete per il semplice gusto di riempire dei vuoti. Ho sempre cercato risposte a domande esistenziali che mi risuonassero: chi sono, da dove vengo, perché sono qui? Attraverso la pittura ho sempre sentito una spinta interna che mi portasse delle risposte. E ancora le sto cercando”. Antonio convive con il periodo pandemico presente come con un nonsoché di conosciuto: “Erano i primi anni Cinquanta, c’erano già le mascherine allora. Io in ospedale da solo, avevo già vissuto la mia prima quarantena in tenera età”. Oggi Antonio si definisce solitario per natura, a lui basta stare nel suo atelier, nel verde e a due passi dal laghetto di Origlio. “Ogni occasione è buona per incamerare ispirazione e trasformarla poi in creazione su tela. A proposito di colori, ricordo l’incontro con Francis Bacon, gli chiesi cosa significasse per lui la pittura astratta. La risposta mi sorprese: per lui era solo un esercizio di colore”. Antonio sprigiona colori, immagini e storie di vita infinite.

Il canto libero

E chi si immaginava che Antonio fosse stato un figlio delle culture giovanili degli anni Sessanta? Mi sarei aspettata che ascoltasse musica medievale, classiconi alla Beethoven, magari del jazz… Come si dice, l’apparenza inganna. “Oltre all’arte, ho sempre amato anche la musica, la mia disabilità non mi ha certo impedito di suonare da autodidatta vari strumenti: la tastiera elettronica, l’armonica a bocca, il flauto di pan e il didgeridoo. Ascolto l’elettronica dei Kraftwerk, Jimy Hendrix e mi piace un sacco Lucio Battisti”. E, pensando all’immortale Battisti, mi congedo da Antonio canticchiando tra me e me “il mio canto libero”. Pensando che la libertà di essere chi si vuole non ha confini.

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