Cosa significa davvero avere una malattia rara
Tra casse malati che non rimborsano i farmaci, sofferenza fisica e mentale, gente che non capisce. Alcune testimonianze
Di Palma Grano
Il 29 o 28 febbraio di ogni anno si svolge la giornata internazionale per le malattie rare. A causa del coronavirus l’evento svizzero quest’anno è posticipato al 6 marzo, ma l’attenzione verso queste malattie non può essere rinviata.
Come il Coronavirus ci insegna o avrebbe dovuto insegnarci, la salute di tutti deve essere preservata. Il Covid-19 ha fatto capire a molti che siamo tutti vulnerabili.
Raro, mica tanto
Le malattie rare sono nell’80% dei casi di origine genetica, mentre le altre sono il risultato di infezioni (batteriche o virali), allergie e cause ambientali. Si tratterà di un paragone forte, ma forse ora che abbiamo dolorosamente assistito alla limitazione delle nostre libertà per il bene collettivo, ci rendiamo conto del fatto che la salute è al centro del nostro (ben)essere. Per chi soffre di una malattia rara la sensazione di vivere con una spada di Damocle costantemente appesa sopra la testa è spesso incompresa dal sistema, sia esso statale, sociale, familiare. Sono almeno 300 milioni le persone nel mondo – l’intera popolazione degli Stati Uniti, per capirci – a soffrire di queste malattie. Se pensiamo che una persona ogni 20 abitanti della Terra è affetta da una patologia rara, l’aggettivo “raro” muta significativamente il suo valore semantico.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità esistono settemila malattie rare riconosciute. In Europa si definisce “rara” una malattia che colpisce non più di cinque persone ogni diecimila abitanti. Se pensiamo alla Svizzera, parliamo del 6-8% della popolazione elvetica. Dietro questi numeri ci sono persone. La statistica evidenzia quanto questo problema non riguardi un numero esiguo d’individui ma sia una realtà in cui ci imbattiamo – senza saperlo – tutti i giorni.
In nome della genetica siamo tutti uguali, perché tutti diversi. Questa diversità è ancor oggi troppo spesso alla base di discriminazioni strutturali. Di grande interesse per descrivere quest’aspetto è l’articolo dei professori Hyry, Roos e Cox “Farmaci orfani: cari ma necessari”. I tre scienziati richiamano la teoria di John Rawls sulla giustizia sociale. Rawls sosteneva che correggere le disuguaglianze basate solo su razza, età, sesso o background sociale non sarebbe stato sufficiente a costruire una società equa. Secondo lui era importante correggere tutte le disuguaglianze, anche quelle che originano dalla distribuzione moralmente casuale di talenti o altri attributi personali. Per esempio, è moralmente arbitraria la circostanza che un bambino nasca sano o affetto da una malattia rara. Questa condizione definisce una perdita di opportunità sociali ed economiche. Per Rawls un segnale indicativo di uno Stato che goda di buona salute, quanto a giustizia sociale, è quello di uno Stato che offra un trattamento adeguato ai cittadini affetti da malattie rare, perché così facendo garantisce anche l’uguaglianza di opportunità.
Intervistare delle persone affette da una patologia rara, in questo caso di tipo genetico, potrà forse esserci utile a capire che un Paese in salute è un Paese che si occupa di tutti i suoi malati. Ascoltare i pazienti e conoscere le loro storie è un modo per avvicinarci a un mondo più vicino a noi di quanto si possa immaginare.
‘Allergici’ al sole
Ne parliamo con alcune persone affette da protoporfiria eritropoietica (anche conosciuta come EPP), una malattia genetica di cui soffre circa una settantina di persone in tutta la Svizzera. Questa malattia è caratterizzata da una grave intolleranza alla luce, particolarmente al sole e ad alcune luci artificiali. La diagnosi è spesso difficile poiché spesso non è la pelle a bruciare, ma solo il sangue. È come se le persone che vivono questa condizione, dopo pochi minuti di esposizione al sole, sentissero delle parti del corpo bruciare, quasi fossero a contatto con dei carboni ardenti. Questa sensazione persiste per diversi giorni. Data tale sintomatologia, il mito dei vampiri è stato associato spesso a questa malattia. Infatti, i primi tentativi per curare la protoporfiria eritropoietica altro non erano che trasfusioni di sangue. Fortunatamente, come ci racconta uno degli intervistati, il presidente della Società Svizzera per la Porfiria Rocco Falchetto, “questa malattia ha ormai una terapia efficace che riesce a limitarne i sintomi”. La pozione magica si chiama Afemelanotide.
Lo stesso Falchetto ha dichiarato nel maggio 2020 al Porphyria Network che gran parte del pianeta starebbe sperimentando proprio ora, a causa del Covid-19, cosa significhi isolarsi dal mondo e non poter uscire dalle proprie case. Per i malati di EPP il sole è il virus che limita le loro uscite, le possibilità lavorative, le attività sociali e gli eventi familiari”. E ancora: “Proprio come gran parte della popolazione del pianeta sta aspettando di poter beneficiare del vaccino per combattere il virus, i pazienti affetti da EPP stanno ancora aspettando, a quasi sette anni dall’approvazione ufficiale della terapia, di poter beneficiare dell’unico farmaco efficace che possa permetter loro di uscire dall’isolamento e consentirgli di vivere un’esistenza normale”. Fortunatamente Lorena, Giulia e Rocco hanno ora accesso all’Afemelanotide, anche conosciuto come Scenesse, ma la lotta contro le casse malati è stata estenuante.
Se la cassa non paga
Vale la pena ricordare che in Svizzera esiste un articolo che rende la situazione dei malati di malattie rare tutt’altro che facile. L’inghippo si trova nell’articolo 71 a-d dell’Ordinanza sull’assicurazione malattie (Art. 71 a-d OAmal) che regola il rimborso dei medicamenti nel singolo caso, e quando questi medicamenti non siano ancora omologati in Svizzera dà di fatto un enorme margine di manovra alle casse malati per rifiutare il farmaco appellandosi al ‘principio di equilibrio tra i benefici economici, sociali e personali del farmaco’. È evidente come una tale norma renda arbitrariamente interpretabile la posizione – e la sofferenza – di ogni singolo malato, che può facilmente incorrere nella sciagurata possibilità di vedersi rifiutato il rimborso. L’Ufficio Federale della Salute Pubblica non ha nessuno strumento per impedire gli abusi di potere e sono i singoli cittadini – al cui carico restano le spese giudiziarie – a dover tentare di far valere i propri diritti.
Nel caso dell’Afemelanotide, come ci dice Falchetto, il farmaco non è stato ancora approvato da Swissmedic perché il dossier è ancora da valutare. La mancata approvazione dei farmaci per patologie rare è abbastanza comune, ma genera delle difficoltà enormi per i pazienti. Per questo motivo, quando chiediamo cosa si aspetta dallo Stato, non ci attendiamo altro che questa risposta: “Mi aspetto un trattamento equo per i pazienti affetti da malattie rare. Ci sono molti casi in cui si è dovuto lottare con forza per ottenere l’accesso o la continuità di un farmaco essenziale come nel nostro caso. È vero che lo Stato ha intrapreso degli utili passi per il miglioramento dell’accesso ai farmaci con una recente revisione dell’ordinanza. Ma ancora oggi alcuni pazienti si trovano soli davanti a un rifiuto di rimborso o addirittura davanti alla giustizia per richiedere il diritto alla salute: non è ammissibile e dimostra che ci sono ancora gravi lacune da colmare. Malati affetti da una malattia genetica grave si trovano puniti doppiamente, perché il sistema sanitario svizzero non li tutela nell’accesso equo alla cura”. Per Rocco “non è accettabile che con cartelle cliniche simili ci siano casse malati che negano dei farmaci importanti a un paziente, mentre con altre casse malati i pazienti ricevono il farmaco. È vergognoso”.
‘Utilizzo compassionevole’
È della stessa opinione la dottoressa Elisabeth Minder, che dopo aver lavorato per circa quarant’anni per i malati di porfiria ed essere stata responsabile svizzera per la sperimentazione di Scenesse monitorando gli effetti positivi del farmaco, ci dice: “È stato frustrante vedere come nel processo di regolamentazione i pazienti non siano sufficientemente coinvolti. Lo stesso avviene nella decisione delle casse malati per la conferma del rimborso del farmaco. È inoltre contraddittorio vedere come durante la fase tra sperimentazione e approvazione chiamata ‘utilizzo compassionevole’ i pazienti beneficino del farmaco, ma una volta che questo è approvato a livello europeo tale diritto sparisca per decisioni basate essenzialmente sull’economia”.
Questa dottoressa in pensione ci parla dell’importanza dell’ascolto a tutti i livelli (politico, sociale, lavorativo e familiare). Un’empatia a 360 gradi. È della stessa opinione Falchetto: “Il nostro sistema sanitario dovrebbe introdurre un procedimento che preveda la presenza del paziente seduto al tavolo con chi prende le decisioni sulla sua salute, che sia Swissmedic, l’Ufficio Federale della Salute o le casse malati. Dovrebbe essere ascoltato. In Svizzera questa prospettiva non è tenuta in considerazione. Ci sono Paesi in cui la voce dei pazienti è ascoltata”. Crede inoltre che “ci sarebbe bisogno di un’istituzione super partes in grado di poter stabilire l’accesso a un farmaco. Questa commissione dovrebbe comprendere specialisti nel campo della malattia rara in discussione e pazienti”. È doveroso specificare, infatti, che non è il medico che cura tali pazienti ed è quindi specializzato nella loro malattia a decidere sul trattamento adeguato, ma un medico generico dell’assicurazione. Quest’ultimo decide in base al dossier, spesso senza aver mai visto il paziente e aver parlato con il medico specializzato. Vi pare assurdo? Eppure è proprio così.
Primo, ascoltare
Ma cosa riterrebbero utile che venisse loro chiesto le persone affette da questa malattia? “Mi sarebbe piaciuto se qualcuno mi avesse mai chiesto che cosa rappresenta per me il sole”, risponde Falchetto. Per lui il sole rappresenta – o meglio rappresentava, fino alla prima somministrazione del farmaco – dolore fisico, isolamento, rabbia, un incendio che divampa da dentro, un fuoco nemico; nulla di piacevole come per la maggior parte della popolazione per la quale il sole è felicità.
Lorena, neo-mamma e dirigente luganese, alla quale è stata diagnosticata la porfiria solamente all’età di trent’anni, ci confida di essere stata trattata come una pazza isterica da medici incompetenti che non ammettevano di non sapere; lei ha bisogno di rispondere a questa domanda: “Quanto si sente compresa dalle altre persone?”. Dice che la malattia è subdola perché non si vedono i sintomi sul corpo e solo i parenti si rendono conto della gravità della situazione, quando si trovano a doverle stare accanto mentre si sente come se stesse bruciando viva. “È in questo momento che capiscono quanto sia forte la sofferenza”. Parla di Scenesse come di una ‘manna dal cielo’, perché la sua vita è cambiata radicalmente grazie al farmaco. A livello lavorativo, per paura dello stigma e dell’incomprensione, racconta di essersi trovata spesso in situazioni a dir poco complicate, come dovere scappar via da una riunione in cui la luce era troppo forte. Adesso lavora più serena. Per quanto riguarda la comprensione politica invece, non può che evidenziarne i limiti, confidandoci che “quando la cassa malati mi ha negato il farmaco per due anni, sono ricaduta nella disperazione più totale. Dallo Stato mi aspettavo e mi aspetto di più”.
Giulia, insegnante presso le scuole elementari, avrebbe invece voluto che le chiedessero: “Cosa auspica per il suo futuro?”. A noi risponde: “La garanzia del farmaco per il resto della mia vita. Ora, come mamma, la preoccupazione di non poter accompagnare i miei figli nelle attività più banali come una passeggiata o un pomeriggio al parco mi terrorizza. Siamo già miracolati ad avere un trattamento”. La richiesta di questi pazienti, insomma, è unica e fondamentale: la garanzia del diritto alla salute.