Una Szeemann si racconta

L’artista visuale ricorda la sua infanzia, il padre Harald e i suoi nuovi progetti

Di laRegione

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.

Una Szeemann è cresciuta nel microcosmo di Tegna ed era di casa sul vicino Monte Verità con le sue utopie. Quasi ossessionata dall’invisibile, amante delle sfide e dei materiali insoliti, abbiamo incontrato l’artista e figlia del compianto Harald – nel frattempo trasferitasi a Zurigo, dove vive e lavora –, una viaggiatrice dei territori sconosciuti del sogno e dell’inconscio che ci riporta a Luigi Pirandello e il celebre Uno, nessuno e centomila dedicato alla molteplicità dell’identità. A lei non piace ripetersi; con le sue opere, Jean Cocteau insegna, vuole stupire lo spettatore lasciando però qualcosa di sé. La sua ricerca multiforme parte dalla recitazione per giungere al video, l’installazione, la scultura, la fotografia, senza dimenticare il libro d’arte e la curatela. Per il Ticino Una ha un sogno da realizzare che già era di suo padre, il curatore indipendente che fece scuola e amava parlare con tutti. 

L’INTERVISTA
Signora Szeemann, incominciamo dal suo nome: Una come «unica» e irripetibile o c’è dell’altro?
«In realtà mi chiamo Una Alja. Nel caso non fossi uscita bene i miei genitori hanno immaginato che mi avrebbero potuta chiamare Altra invece che Unica. Questo si rispecchia anche nei miei lavori dove convivono l’uno e l’altro». 

Dove è cresciuta? 
«Ho trascorso l’infanzia nel microcosmo di Tegna dove potevo giocare liberamente per le strade, e al contempo viaggiavo con i miei genitori in grandi città come Berlino, Vienna e Parigi, facendo tappa nei musei». 

Quanto ha condizionato la sua vita il genius loci del Monte Verità? 
«Da bambina il Monte Verità era il mio parco giochi e mi emoziona ancora tornarci. Quando mio padre ha curato la mostra monografica, nel 1978, ero molto piccola e il concetto di questo luogo non mi era ben chiaro, ma avvertivo una straordinaria energia onnipresente. Il genius loci del Monte Verità mi accompagna sempre e mi ha aiutato ad avere una sensibilità più elevata». 

Quanto si sente mitteleuropea?
«A livello culturale è l’identità che mi è più vicina. Ho vissuto cinque anni a New York e mi sono sempre sentita un’estranea nella società americana, ed ero contenta di esserlo». 

Chi tra gli artisti frequentati l’ha impressionata di più?
«Avrò avuto tre anni quando a una mostra, in un albergo al Passo della Furka, James Lee Byars mise una piccola sfera argentata su un piumino in una stanza. Poi al vernissage l’artista americano e Mario Merz a un tratto hanno iniziato a darsi delle testate. L’enorme poesia della sfera e la seguente dimostrazione di forza dell’artista maschio non funzionava nella mia visione. Questa ambiguità rendeva la cosa ancora più interessante». 

Perché dopo gli studi di recitazione ha scelto di fare l’artista?
«Effettivamente ho ripreso il percorso dei miei genitori che erano attori e poi hanno deciso di occuparsi d’arte. Mi sono resa conto in fretta che la professione di attrice non lasciava ampia libertà d’espressione». 

Quando ha capito cosa voleva fare da grande? 
«Sono andata a Berlino nel 1998 e ho iniziato con Micky Schubert a realizzare una soap opera trasmessa su internet che era ancora agli albori. La storia fittizia, dal titolo Sexy Berlin, era ambientata in luoghi reali di una città in pieno fermento. Quando ho scritto la sceneggiatura, recitato e curato la postproduzione ho capito cosa volevo fare: un percorso artistico individuale da indipendente». 

In seguito lei ha scelto altre forme espressive. Vuole parlarci del lavoro realizzato per «Manifesta 11» a Zurigo, in cui si è chinata anche sull’ipnosi e la psicanalisi? 
«Ritenevo interessante mostrare i processi invisibili svolti nella fase di studio del progetto artistico. A Los Angeles ho passato le notti a pensare cosa fosse ‘la vera intenzione’. Immaginavo una fiamma che si spegnava e mi appariva un seme. Ero delusa da questa visione troppo banale per spiegare l’epicentro dell’intenzione artistica. Così, una volta tornata a Zurigo, sono andata da uno psicoterapeuta che mi ha aiutato a sviluppare questo seme sotto ipnosi e dal viaggio complesso nelle sue nuove forme sono nate delle sculture. Poi le ho fatte analizzare da uno psicoanalista senza che sapesse del lavoro pregresso». 

Che cosa è rimasto agli spettatori dopo aver visto l’installazione scenografica Il viaggio del seme?
«Un libricino con la trascrizione della mia ipnosi e l’analisi degli oggetti. Mi piaceva l’idea che rimanesse qualcosa dell’opera e che ognuno potesse fare un suo viaggio interiore. Un artista deve essere generoso. È importante che lo spettatore senta questa sua lotta tra l’intelletto e la materia». 

Quanto conta per lei l’onestà intellettuale?
«È una componente importantissima. Devo essere onesta con me stessa e non posso barare. Mi si può criticare e sono io la prima a farlo». 

Come entra nel suo percorso la collaborazione con il fotografo e videoartista Bohdan Stehlik?
«Di solito gli artisti non vogliono condividere un successo. Invece ho avuto il piacere di lavorare insieme al mio compagno e di fare dialogare due punti di vista diversi. Così è nata la mostra al Museo cantonale di Lugano Quello che non è, non è quello che. In seguito è uscito il libro d’arte omonimo per continuare il confronto su realtà e apparenza, verità e illusione». 

Come si rapporta con il concetto dell’invisibile?
«Lo vedo un po’ dappertutto. È una mia ossessione che fa parte di un discorso complesso. Le mie opere sono tracce visibili di processi invisibili». 

In cosa crede? E i sogni influiscono sul suo lavoro? 
«Sono aperta a tutte le ipotesi, ma non sono assolutamente religiosa. Credo in una forza maggiore che non definirei Dio né la metterei in un contesto. La dimensione onirica è fondamentale e cerco di integrarla nel mio lavoro come ho fatto di recente alla Kunsthalle a Winterthur. Presto uscirà una mia fanzine sui sogni, con foto e testi, edita da Innen». 

Che cosa si aspetta dal Ticino? 
«Spero che sul Monte Verità un giorno si possa realizzare un centro per l’arte contemporanea con le residenze d’artista che mio padre sognava di fare». 

Come ricorda suo padre Harald?
«Era una persona molto generosa e parlava con tutti, rapportandosi allo stesso modo, senza mai giudicare. Gli sarò sempre grata per questa scuola di vita. Mia madre, invece, è dotata di grande energia e positività. Tutti e due avevano un enorme amore e rispetto l’uno per l’altra. Detta così sembra una costellazione un po’ idilliaca, ma è la realtà». 

A cosa sta lavorando ora? 
«A diverse mostre tra cui una alla Biennale di Weiertal dove sui terrazzamenti di una vigna dismessa poserò un tessuto teatrale lungo 30 metri. Celare qualcosa significa renderlo quasi più visibile». 

Che tipo di materiali predilige? 
«Mi piace indagare nuovi materiali e buttarmi in acque fredde. Lavoro molto per esempio con i capelli e l’idea che recano di un circuito tra vita e morte. Queste antenne cosmiche sono un materiale ambiguo che vaga tra la magia, la seduzione e lo schifo». 

Come prosegue il suo lavoro di curatrice? 
«Con Michele Robecchi, Riccardo Lisi, Bohdan Stehlik e Noah Stolz abbiamo curato una mostra con gli oggetti rimasti nella fabbrica rosa di Maggia dove aveva sede l’archivio di mio padre ora al Getty Research Institute (a Los Angeles, ndr). Si trattava di opere disparate e inclassificabili alle quali abbiamo dato un significato e una nuova storia confluita anche in un libro in fase di realizzazione. Nel corso della selezione ho trovato, come per magia, uno dei tanti scarabocchi di mio padre con la scritta ‘pretenzione intenzione’». 

IL RITRATTO – CHI È E COSA FA
Una Szeemann è nata a Locarno nel 1975 e vive a Zurigo. Dopo aver studiato recitazione a Milano si è dedicata all’arte spaziando tra video, installazione, scultura e fotografia. Tra le sue personali si ricordano Montewood Hollyverità (2003), tenuta a Londra, Tokyo e New York, Quello che non è, non è quello che con Bohdan Stehlik al Museo cantonale d’arte di Lugano (2014) e In, um es herum und unterhalb alla Kunsthalle di Winterthur (2018). Ha esposto in collettive alla Biennale di Venezia e alla Biennale di Lione. A maggio si sono inaugurate Paradise, lost alla Biennale di Weiertal (Svizzera) e Digital Ecology al Centro per l’arte contemporanea di Plovdiv in Bulgaria. A luglio si inaugurerà invece la mostra Sesso e potere alla Kunsthalle di Schlieren (Svizzera). 

 

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