‘Placherò il mio cuore’. Un racconto di Giorgio Genetelli
“Sono vigliacchi, hanno riempito l’universo di frastuoni ma si sgomentano al ramingo ululato, il mio solo, naturale e condannato verbo”
Di Giorgio Genetelli
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
La gente delle mie montagne
hanno le braccia forti
hanno i toraci aperti
(dal brano ‘La poiana’ di Enzo Jannacci, 1979)
Non hanno paura del fuoco e bruciano le bestie prima di mangiarle. Mangiano tutto, non lasciano niente per domani. Allevano agnelli e poi li sgozzano. Così i maiali, le capre, le galline, conigli, asini, oche, tacchini e vitelli. Tutto. Era però un dolersi feroce quando ne uccidevo uno io, per fame.
Se ho fame cosa devo fare? Chiedere? Non parlo la loro lingua, se mi vedono imbracciano il fucile (ho imparato che si chiama così), buttano via gli avanzi invece di lasciarli a me. Con le loro case hanno invaso i prati e i prati hanno scacciato i boschi. Eppure, non fanno che lagnarsi. E sparare. Non riesco a capirli, non riesco a capire. Conosco solo la mia fame e la mia rabbia, sono quello che sono, non posso cambiare. Vado furtivo con il peso della mia pena. O resisto o muoio.
Ho camminato a lungo per arrivare qui, con la mia piccola famiglia. Sono un clandestino, la mia razza lo è da sempre, reietta, trucidata e temuta, ingannata e travisata fin dalla nascita dei tempi e dalla loro comparsa intrisa di dominio. Lungo queste montagne sono stato lasciato in pace quando arrivava la neve, ma con l’ansia per il cibo difficile da procurarsi: qualche bestia malata o ferita, qualche carcassa. Mi avvicinavo alle case solo di notte, ma tutto era sbarrato e li vedevo al calore di quel loro spaventoso fuoco che amano così tanto, le bestie al tepore della stalla, le porte chiuse, i recinti invalicabili, i cani feroci, i maschi vocianti e le femmine silenti.
Padroni a casa nostra
Dopo arrivava la primavera, finalmente camosci cinghiali cerbiatti caprioli lepri marmotte pernici fagiani. Magnifico, avevo da mangiare. Pecore e capre no, non più, al pascolo c’erano i pastori e i cani, troppo pericolosi, nostri fratelli ma da tempo traditori e nemici. Nascosto nei boschi, stavo in attesa della notte, io vedevo loro e loro non vedevano me. Una sospensione, ma sempre allarmata dall’insidia di tagliole e bocconi avvelenati. Poi l’estate, le prede sempre più in alto oltre le pasture invase dai greggi sorvegliati da pastori con i fucili.
Uno di loro uccise un mio piccolo mentre addentava incerto un legno, un gioco da predatore, spezzato. Il dolore non mi ha più lasciato e ho promesso vendetta. Per questo resisto, qui, appartato e in fuga da un’impronta, un odore o uno sparo, affamato e solingo. Resisto per saldare o aumentare il conto con le leggende, il male e il bene, e non ho niente da obiettare, nemmeno la mia sostanza diffamata.
Ho paura, certo che ne ho di paura. Stanno eretti come gli orsi, ma gli orsi non sparano, pochi e schivi, e come noi uniti nella malasorte. Loro invece sono migliaia, astuti e crudeli, avidi di terra e di carne, la mia e quella delle loro bestie condannate a morte senza uno scrupolo. In cambio delle mattanze ricevono soldi, fogli di carta immangiabili, però di grande valore e che servono per altri prati, altre macchine, altre bestie, altre armi, altre prevaricazioni. Non sembrano mai sazi, non lo sono, si moltiplicano, tagliano, invadono, bruciano, ingannano, sparano, alzano reti, costruiscono muri e strade, recingono confini. E mangiano, mangiano. Mangiano così tanto che per un mio pasto loro ne fanno tre. Una sproporzione gigantesca, eppure tutti sono contro di me, che sono quasi solo, i miei simili dispersi tra anfratti e buche, in boschi oscuri. Siamo braccati, illegali, odiati: lo vedo nei loro gesti e lo sento nelle bugie delle loro favole terribili.
Ma questo è il momento della vendetta, atteso allo spasimo e troppo, troppo a lungo rimandato.
Stanotte loro sono lì, sono tanti, grandi e piccoli, maschi e femmine, con quel fuoco immenso e profanatore, una pira sulla quale bruciare le loro bestie accudite fino a ieri e adesso sacrificate per il pasto. Cantano, ebbri di onnipotenza. Lo odio il loro canto, squarcia la virtù della notte. I visi sono arrossati, con le barbe a significare il loro pelo perduto e la rinnegata virilità da bestie. Puzzano in modo rivoltante, la loro carne è immangiabile, piena di grasso rancido
e sangue avvelenato. Mi fanno schifo. Bevono cose strane che non sono acqua, fanno discorsi senza amore, conteggiano. Quando non si uniscono per odiare me, si odiano tra loro per qualche metro di terra, per qualche frontiera.
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La terra è nostra, i pericoli vanno annientati, i soldi guadagnati.
Alla loro prole raccontano storie di macelli, di spari, di sgozzamenti, imitando con ipocrisia le stesse voci dei piccoli, o squittendo come le femmine.
La bambina raccoglieva frutti di bosco quando le apparve il lupo.
Poi i loro piccoli diventano grandi in questo modo, così, perpetuando la superstizione con la ferocia nel cuore e la mente insozzata dall’assassinio come scopo e vanto. Per questa cosa di stanotte, che loro chiamano festa, stanno a gruppi nel prato falciato al limitare del bosco, un prato senza fiori. Non li raccolgono i fiori, quelli dei loro balconi vengono dalle pianure e li scambiano con i soldi impregnati del loro odore. Pregano un dio inventato, che se ci fosse avrebbe misericordia anche per le bestie e invece no.
Fece l’Uomo a sua immagine e somiglianza.
Vibra la terra violentata, freme la mia rivincita. Ardono le carni sulle braci. Ribolle il mio sangue. Gli occhi prudono, naso e orecchie dolgono. Morde la fame, divampa la sete. Ma devo resistere, calmo e invisibile, attendere l’attimo, un gesto solitario, un passo nell’ombra, una disattenzione, una cieca sordità.
Salta föo, lupo dal bosco
con la faccia nera nera
l’ha mangiaa il più bel caprin
che la pastora aveva.
Non sanno cosa dicono, intontiti dalle loro voci spaventose. Sono vigliacchi, hanno riempito l’universo di frastuoni ma si sgomentano al ramingo ululato, il mio solo, naturale e condannato verbo. Stanno in branco per convenienza, sbranano a parole i loro simili più deboli, li aggrediscono, li denigrano, li rinchiudono, li dimenticano e poi vanno avanti con la festa. Ma è tutta una decadenza di morte, di inimicizia. Sono ormai troppi, incontenibili, avidi, eppure pensano di non morire, di non avere il dovere della morte, che il morire, solo il loro, sia indegno e immeritato, convinti che la natura piegata al loro volere basterà sempre per tutti.
Per tutti, certo. Tranne che per me, la fiera, l’oscuro, l’eretico, il malefico. La mia morte è giustizia, lo scrivono nelle tavole della legge. Ma la mia giustizia è altra cosa e stasera si mostrerà. Cadrà dio, si spegnerà il fuoco, spalancherò le fauci, spargerò lacrime, seminerò terrore, berrò sangue. Placherò il mio cuore nella condizione inestinguibile di fame e sazietà, con la delizia dei loro occhi stupefatti nella morte che irrompe, finale e solitaria.