Odessa, città aperta

Sguardo sul porto europeo simbolo di un popolo dalle mille, enormi anime

Di laRegione

«Con la guerra sono arrivati da noi profughi ebrei sbandati ed estranei al nostro spirito, ebrei polacchi e lituani, sono arrivati i serbi e i rumeni. Ma di questi ultimi nessuno che ami la nostra città può parlar male. Essi hanno fatto rifiorire Odessa, hanno riportato alla memoria i tempi lontani quando da noi c’erano negozianti greci che commerciavano in caffè e spezie, tedeschi-salumieri, francesi-librai, e le agenzie di navigazione inglesi. Hanno aperto ristoranti, imparato a suonare il cimbalo, riempito le trattorie di veloci parlate straniere; hanno mandato qui bellissimi ufficiali con le scarpe gialle, donne alte ed eleganti dalle labbra scarlatte. Questa gente s’è inserita perfettamente nello stile della nostra città. Quindi non è un gran male se c’è chi non si inserisce nel nostro stile. Odessa è una città solida e la sua straordinaria capacità di assimilazione non si è perduta. […] Nel nostro porto una sirena lacera l’aria, in una bettola un vecchio grammofono esalta con la sua roca voce l’Inghilterra, regina dei mari. I nostri magazzini si riempiranno di arance, di noci di cocco, di pepe, di malaga, sui nostri granai si solleverà la polvere verdastra del grano scaricato».

(Isaak Babel’, Quadretti odessiti, 1918, nella raccolta Odessa, a cura di Costantino Di Paola, ed. Marsilio).

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