Il terzo sputo

Errare è un gioco con il vuoto, in cui tacciono certezze, dati, cronache, ma parlano i silenzi, gli sbagli, il dietro dell’angolo che non svoltiamo
Di Matteo Beltrami
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
Errare, o andare per via senza meta, è una rubrica di racconti. È un gioco con il vuoto, in cui tacciono le certezze, i dati, le cronache, ma parlano i silenzi, gli sbagli, il dietro dell’angolo che non svoltiamo. L’invisibile cessa di essere mostruoso oppure, come unica alternativa, ridicolo. Errare poi è un verbo che suona, facciamo finta che sia solo un fruscio, al massimo un sentore. Errando catturo delle immagini. Ogni cosa mi risulta tragicomica e questo è il carattere di Errare, forse l’unica patria che gli è concessa.
L’anima ognuno se la salva come gli pare.
(Fabrizio De André, Sotto le ciglia chissà. I diari)
‘Por favor Almita, regresa’
In Bolivia esiste un metodo: una persona che prende uno spavento deve tornare sul luogo in cui è avvenuto e sputare a terra per tre volte. Man mano che sputa deve richiamare con gentilezza la parte di anima che è fuggita nel momento di paura.
Una volta sono stato morso da un cane, in Bolivia. Mi sono spaventato e sono scappato. L’indomani sono ripassato dallo stesso luogo, si trovava sulla strada per andare al lavoro. Mi ero portato un bastone e se quel cane si fosse rifatto sotto lo avrei colpito. Un’anziana mi chiese di fermarmi un momento. Aveva assistito al morso del giorno prima. Mi fece sputare per tre volte e intanto, facendo gesti con le mani diceva: “Por favor Almita, regresa, no hay nada que temer”. Mi ha accarezzato la testa e mi ha detto che potevo andare, la mia Almita disunita era tornata. “E se non tornava?”. Le domandai. “Mal di schiena, pelle rossa, niente appetito. Cose così”. Aveva risposto.
C’è un dialogo nel film del 2021 È stata la mano di Dio, di Paolo Sorrentino: “Non ti disunire Fabio”. Dice un furente regista Capuano al giovane protagonista, rimasto da poco orfano e desideroso di fare del cinema. “Mi chiamano tutti Fabietto”. “È ora che ti fai chiamare Fabio. Non ti disunire”. “Ma che significa?”. “Ll’è a capì tu solo, ll’è a capì tu solo, sfacimm’! Non ti disunire Schisa. Non ti disunire mai. Non te lo puoi permettere”.
L’abbandono è la ferita primaria imprescindibile. Noi umani ci disuniamo perché perdiamo la fiducia. Ci sentiamo inconsolabilmente abbandonati da qualcosa che ci trascende, come un genitore assoluto che ci ha sbattuti qui tradendo la promessa di un’elevazione animica, una pace sacra, a temere la morte, a pulire pavimenti che torneranno sporchi, a recidere relazioni che come un copione riprodurremo con altri, a incolonnarci in automobili dalle spie accese, con un altro servizio da fare. Mal di schiena, pelle rossa, scarso appetito.
Cose così.
E nessun vino colma l’assenza di una calma. L’assenza di una calma, guardando all’abbandono assoluto, porta solo spavento, pensiero eccessivo. Va esercitato il rito della rabbia verso ciò che si teme. Solo allora ciò che si teme capirà il tuo valore. Solo allora sarà possibile una riconciliazione. E questo si chiama atto d’amore. Sono capace di vestirmi bene, quando scrivo, anche se rimango a casa. Lo faccio al buio, una candela accesa.
Oppure lo faccio al gelo, nei dehors dei bar che preferisco, al mattino presto. Gelo e buio, forse è da lì che vengono fuori le storie più necessarie. E io ogni volta sono come al cospetto di qualcosa che non mi pare di decidere. Rimango solo all’ascolto e mi attraversano voci. Io, vestito bene, le trascrivo. Questo faccio io per salvarmi l’anima, tutto il resto è maschera, e se mi incontrate per strada non abbiate vergogna di ricordarmelo, perché magari ne avrò bisogno. Cerco qualcosa verso cui dirigere il mio terzo sputo, ma non è un punto fisico, va visto fra le trame e allora continuo a vagare, a guardare.
A Porta Palazzo, giù le maschere
Un paio di volte alla settimana vado a Porta Palazzo, il mercato principale di Torino, che è anche fra i più grandi d’Europa. È stupendo, una babilonia. Mischiato a quella magnifica moltitudine divento anonimo e allora mi vengono giù le maschere e capisco che le paure non sono mie, ma degli altri me, quelli che ho addosso. In quella condizione di libertà capisco che non c’è da disunirsi e che siamo tutti qui per compiere missioni che oltrepassano le afflizioni e i ruoli. È necessario però scoprire quello che amiamo veramente. Non possiamo amare quello che amano le nostre maschere. Osservo i corpi muoversi fra le strettoie, fra la frutta e i banchi. Vedo abiti, baffi, anelli, occhiali, denti scheggiati. Ascolto linguaggi fondersi e diventare suoni. E mi viene voglia di tabacco, di sedermi su un gradino e perdermi per ore a guardare dettagli. E allora me lo concedo. E capisco che di questo voglio scrivere. Dei dettagli, quelli che vedo quando sono libero dal mio personale falso spavento. Quei dettagli di bellezza e luce, sono storie preziose che non potrei mai disdegnare.
C’è questo signore, tutti lo chiamano Vago e di fatto vaga fra il pesce e le arance, fra i caciocavalli e i churros. Avrà novant’anni, è emaciato e galante. Non ha un soldo, gli lasciano i caffè sospesi nei bar o gli allungano una moneta. Lui racconta a tutti di gente che gli ha fatto un favore, è come se volesse tracciarne i ritratti. Forse recita, chissà.
“Era un amico mio. Un amico mio con due palle sotto così”. E fa il gesto. Lo dice a una barista che porta un vassoio pieno di caffè da distribuire fra i mercanti. “E a questo cosa gli è successo, signor Vago?”. “Ascolta bene, fermati. C’aveva una moglie bellissima. Il dottore gli ha detto che sarebbe morto di lì a poco. E allora l’amico mio, che di fegato non ce ne mancava, m’ha scritto di curargli la moglie, è salito sul tetto del palazzo è s’è buttato al tramonto. Ed era quel palazzo lì”. Fa indicando con gli occhi un punto in alto.
“È terribile!”. “Non è terribile. Che grinta, dico io. Gli mancava poco ai cent’anni, suvvia, come si fa a dirsi addio? E lei ora sta bene e tutto, le ho comprato un canarino e un fiore. Abita sopra di me e si beve una cosa insieme ogni tanto, che non è male. Un bel favore”. “Questo ne racconta di palle” fa la barista già un po’ distante. Ma io penso che Vago si stia soltanto salvando l’anima. Guarda in su, verso un palazzo lì vicino, spalanca le braccia, inspira, scuote la testa e dice solenne: “Che gran volo”.