Viaggio allo scopo di perdersi

Dalle note intime ai reportage, ciascun viaggio (con la maiuscola) ha un punto di partenza chiaro, ma una destinazione tutta in divenire…

Di Marco Stracquadaini

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione

Carlo Dossi, Cristoforo Colombo, Ernesto Guevara (prima che fosse il Che), Amerigo Vespucci, Julio Cortázar e Carol Dunlop e altri ancora hanno tutti una cosa in comune: hanno scritto di viaggi, una tradizione (anche letteraria) che ha radici lontane nel tempo. Dalle note intime ai reportage, ciascun viaggio – da intendersi quello con la maiuscola – ha un punto di partenza chiaro, ma una destinazione tutta in divenire, perché si ha tutto il mondo davanti agli occhi; perché non c’è che una sola strada, che muta nome, ma porta ovunque.

Carlo Dossi immagina in una delle sue ‘Note azzurre’, un “viaggio allo scopo di perdersi”. “Bisogna anzitutto far uno studio preliminare per dimenticare qualunque nozione geografica che possa essere rimasta in noi. Dimenticare completamente dove sia il nord e il sud, da che parte spunti e dove cali il sole (…) Si va naturalmente nelle più inospiti regioni meridionali: là si prende il primo treno o la prima vettura che capita e si scende alla stazione di un luogo che non si conosce. Ci si mette a camminare senza mai domandare dove si è, e dove si va (…)”.


© Wikipedia
Carlo Dossi (1849-1910)

Da Colombo a Guevara

Il libro di viaggio è spesso un diario di viaggio, dal ‘Giornale di bordo’ di Colombo ai ‘Diari della motocicletta’ di Ernesto Che Guevara. Il primo scritto andando in America Centrale senza saperlo, il secondo girando quella del Sud in lungo e in largo, ma più in lungo costeggiando le Ande. Il primo partì per una conquista, della quale non fu del tutto responsabile e che credeva solo commerciale, il secondo per una liberazione, ma non allora. Al tempo delle ‘Notas de viaje’ – già nel titolo-non titolo è evidente che non pensava di pubblicarle – Ernesto Guevara non è ancora il ‘Che’.

A cavallo, a piedi, in bicicletta, treno, nave, viaggiare è andare lungo una linea, ben poco retta almeno fino al treno e all’aereo, che l’hanno raddrizzata come potevano. Così da potersi dire, senza sbagliare: “linea ferroviaria”, “linea aerea”.

‘Per il discoperto’

Amerigo Vespucci scrivendo a Lorenzo de’ Medici (18 luglio 1500) sminuisce il viaggio per l’India, quella vera, di Vasco de Gama circumnavigando l’Africa: “tal viaggio come quello, non lo chiamo io discoprir, ma andar per il discoperto, perché (…) la lor navigazione è di continuo a vista di terra”. Vero è “che la navigazione è stata con molto profitto”, attenua poco più avanti o rincara: cosa oggi molto apprezzata, “e maxime in questo regno, dove disordinatamente regna la codizia (cupidigia) disordinata”. In principio dunque la linea delle rotte era quella oscillante delle coste. In principio e fino alla bussola. Vale a dire fino al XV secolo. Il Mediterraneo era navigato a vista, di porto in porto, perché di pericoli ce n’erano a sufficienza anche così. Primi quelli di tempeste, bonacce e pirati. Lungo una linea verticale cominciarono a cercare il nord i mercanti genovesi. Infilando lo stretto di Gibilterra, costeggiando la penisola iberica, la costa francese fino alla Gran Bretagna e alle Fiandre, saggiando correnti sconosciute, oceaniche, da riuscire a dominare. Saranno le prime prove delle traversate atlantiche. Anche se occorreva aspettare, se non la nascita, il perfezionamento della bussola.

Alla ricerca dell’inesplorato

Una notte casualmente, seguendo una rotta aerea – Parigi-Buenos Aires – mi imbatto in un documentario su una strada statale francese che da Parigi arriva in Provenza, sfiorando o allontanandosi dall’autostrada, che cerca con maggior noncuranza la stessa meta. Un’autostrada procede tendenzialmente dritta bucando o sorvolando gli ostacoli, come un treno. Julio Cortázar e Carol Dunlop, scrittrice anche lei e fotografa, attivista sociale e sua moglie, si propongono un giorno di farsela tutta la Parigi-Marsiglia, con poche ferree regole: non lasciarla mai, fermarsi due volte al giorno alle stazioni di servizio. E scrivere, naturalmente, a quattro mani, il “diario di bordo”. Un viaggio verticale da nord a sud, alla ricerca dell’inesplorato poco allettante: un’area di servizio con i suoi dintorni. Il viaggio per il viaggio scansando tutte le lusinghe.

Il viaggio senza meta o con la meta toccata e lasciata. Amici entusiasti dell’idea li inseguono di sosta in sosta, per consegnare viveri e condividere un pezzetto dell’insolita esperienza. E l’itinerario privo di destinazione rivela una meta a ogni sosta, ognuna delle 60 stazioni di servizio, con ciò che offrono se sai vederlo. Oltre la manutenzione del mezzo e di sé: incontri (che altro?) di persone e animali, di tanti alberi quanti ce ne sono in un bosco. In molti boschi. “Monotonia delle aree di sosta? A noi sembrano sempre più diverse, le sentiamo e le viviamo come microcosmi in cui la nostra capsula rossa atterra ogni giorno come su planetoidi ignoti”. Il risultato del viaggio è ‘Gli autonauti della cosmostrada’, con i disegni di Stéphane Hébert, figlio di Carol.


© Flickr / A.M. Segovia
Julio Cortázar e Carol Dunlop

Una sola strada

Orizzontali e verticali, diagonali, dritte o curve e perfino spezzate… anche per raggiungere una via parallela alla tua, non puoi che seguire una linea, sia che aspetti di trovare una rotonda, sia che tagli alla prima occasione.

I romani tracciavano mappe come un lungo rotolo che riportava il sistema viario dell’impero. Fili bianchi che corrono affiancati o si incrociano, piegano, si biforcano, con quello che vedresti ai lati camminando, in simbolo: tre alberi che significano una foresta, quattro tende per un accampamento. E l’Africa e la Germania separate solo da quella striscia. Molti secoli dopo, nel 1700, i giapponesi facevano la stessa cosa, ma a modo loro.

E il tragitto da Tokyo a Kyoto diventa un dipinto in cui ti pare proprio di scivolare e cominciare il viaggio. Dove le pratiche mappe romane sono fitte di nomi e di numeri, qui colline e torrenti, ponticelli che uniscono due sponde, argini fioriti, la cima bianca del Fuji appare e scompare, accanto, come una luna. Da quella mappa lineare alle xilografie di Hiroshige per ‘Tra le cinquantatré stazioni di posta del Tokaido’, del secolo successivo, il passo è breve. I pellegrini che vediamo stanno per arrivare attraversando un ponte? O hanno appena ripreso il viaggio? Spesso sui poveri viandanti piove perché al pittore piace la pioggia, tracciare linee tratteggiate, oblique che costringono a reggersi il cappello. In altri casi sono già nella locanda, si bagnano e si preparano per la cena. Una donna sta allattando, attorniata dalle compagne. Il percorso del Tokaido fiancheggia il mare, e Hiroshige ha la scusa buona per usare il suo colore preferito. Un fiume, un lago gli consentono di variare i toni, e per la schiuma delle onde, per la neve e le nuvole, può ricorrere a un altro dei suoi colori favoriti.


© Wikipedia
16ª stazione: Yui, xilografia di Hiroshige per ‘Tra le cinquantatré stazioni di posta del Tokaido’

Al mondo non c’è che una sola strada, che muta nome per pura convenzione e porta ovunque. “Di ogni strada mi piace pensare – scrive Kapusciński quasi in chiusura del suo ‘Lapidarium’ – che si tratti di una strada senza fine, che corre attorno al mondo. È un’idea dovuta al fatto che, partendo in barca dalla mia natale Pińsk, si potevano raggiungere tutti gli oceani. Salpando dalla piccola Pińsk dalle case in legno si può navigare attorno al mondo intero”.

Articoli simili