Massimo Volume: poesie di miserie, incubi e uragani

‘Sopra le portate lasciate a metà, i tovaglioli usati / Sopra le cicche macchiate di rossetto / Sopra i posacenere colmi / Sapevi di trovare l’uragano’

Di Marco Narzisi

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione

DISCHI DAL RETROBOTTEGA
Massimo Volume – Lungo i bordi (1995)

Ci sono due modi di scrivere canzoni che non contemplino il fattore “canto”: si può ricorrere all’ormai onnipresente cantato rap (magari con un paio di strati di autotune). Oppure scegliere di trasformare il canto in narrazione, con la parola che per una volta, Montale ci perdoni, squadra l’animo nostro informe. È quello che fanno i Massimo Volume, band di culto dell’indie italiano che nel 1995 dava alla luce Lungo i bordi: una poetica colonna sonora del male di vivere, che ondeggia fra momenti di quiete e sfuriate rock sui quali il frontman Emidio Clementi dipinge quadri fatti di parole. L’album si apre con ‘Il primo Dio’, dedica a Emanuel Carnevali, dimenticato scrittore bolognese dei primi del Novecento autore dell’omonimo libro e considerato uno degli ultimi “poeti maledetti”. La consapevolezza del crollo del sogno americano, affrontato con la forza delle parole: “Sopra le portate lasciate a metà, i tovaglioli usati / Sopra le cicche macchiate di rossetto / Sopra i posacenere colmi / Sapevi di trovare l’uragano”. E poi, uno dei versi più belli che la musica italiana abbia prodotto negli ultimi decenni: “Dire qualcosa mentre si è rapiti dall’uragano / Ecco l’unico fatto che possa compensarmi di non essere io l’uragano”. Lungo i bordi è un viaggio in scorci urbani quasi metafisici, senza spazio né tempo, popolati da figure vaghe come quella che confessa in ‘Per farcela’: “‘Ho ucciso molti uomini’, mi hai detto / ‘È come se lo avessi fatto / e non averlo fatto è stato proprio come averlo fatto’ “. C’è l’incubo (“Improvvisamente stanotte / la stanza s’è riempita dei miei amici d’infanzia / Ognuno di loro teneva con una mano / quello che restava dell’altro braccio / amputato fino al gomito” in ‘La notte dell’11 ottobre’), la solitudine (“Mi sento come il soffitto di una chiesa bombardata” in ‘Inverno ’85’), la carnalità (“Tra i negozi del centro tu mi hai detto / ‘Ho passato vent’anni ignorando di avere un corpo’ / Poi è stato come se un’auto entrasse a 180 all’ora / Dentro una di queste vetrine” in ‘Meglio di uno specchio’). E tanti versi ancora, a volte leggeri come carezze e altre con la forza di un pugno. Troppi per riportarli qui, abbastanza per consigliare uno, dieci, cento ascolti di quest’album.

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