Sport e disturbi psichici. Ombre accanto al ghiaccio

Negli sport di squadra il tasso di burnout e abuso di alcol tocca il 5% dei giocatori, per ansia e depressione si arriva al 45. E in Ticino?

Di Cristina Pinho

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato del sabato a laRegione.

‘Ambrì o Lugano?’. È una domanda a cui si impara a rispondere fin dall’asilo, per dire di quanto in Ticino l’hockey faccia parte dell’immaginario collettivo e determini un’appartenenza. Un mondo affascinante che però nasconde delle insidie. Con due suoi protagonisti – Luca Cereda e Hnat Domenichelli – abbiamo parlato di un’altra sfida che coinvolge trasversalmente sempre più atleti di tutti gli sport agonistici e che entrambi hanno affrontato: quella con la propria mente. Nella Giornata mondiale per la salute mentale, tracciamo i contorni del fenomeno con lo specialista in psicologia dello sport Mattia Piffaretti.

L’aria pungente che avvolge il viso e si insinua sotto la sciarpa, il frenetico scivolio alternato delle lame sul ghiaccio, l’impatto dei bastoni col disco seguito dal suo rimbombo contro le balaustre, e l’insieme degli spettatori in “una specie di volontà disperata di evocare qualcosa di magico” – come scrive Don DeLillo in Underworld a proposito di un altro evento dal respiro collettivo, il baseball – con un crescendo di emozioni che all’accendersi della luce rossa esplodono in un boato o si raggelano in un silenzio affranto. Più o meno è questa l’esperienza di un tifoso di hockey che assiste dal vivo a una partita. Uno spettacolo affascinante, che continua a indurre generazioni di giovani e non solo a fantasticare di indossare i panni dei protagonisti in pista e dedicarsi interamente a quel gioco. Ma all’ombra dei riflettori c’è una realtà dai toni meno accesi la quale dice che nello sport agonistico il rischio di incorrere in disturbi che riguardano la sfera emozionale e mentale è alto.


Luca Cereda, allenatore HCAP, © Ti-Press

L’equilibrio che viene a mancare

‘La malattia dell’hockey’ è il titolo di una lettera aperta pubblicata nel 2015 da Hnat Domenichelli, general manager dell’Hockey club Lugano ed ex giocatore bianconero e dell’Ambrì-Piotta. Al suo interno scriveva: “Io la chiamo così, ma a dire il vero è solo una definizione che utilizzo per descrivere quanto mi è successo”, ovvero: “Le mie decisioni nella vita, le mie emozioni, il mio stato d’animo, tutto ruotava attorno al gioco dell’hockey”. Di questa perdita di contatto con le altre componenti della sua identità e con il mondo fuori dal ghiaccio Domenichelli ha preso coscienza solo una volta dismessi i pattini. Ha allora capito di avere bisogno di aiuto, riuscendo così a liberarsi di un disagio che apparteneva al fondo della sua vita. A 5 anni di distanza davanti a un caffè mi dice: “Il mio problema era che basavo tutto sui risultati delle partite e non riuscivo a lasciare i pensieri legati al gioco fuori da casa”.
Anche Luca Cereda, allenatore dell’Ambrì ed ex giocatore biancoblù, a un dato momento si è reso conto della necessità di trovare un professionista che lo aiutasse a dare un nome e un perimetro al malessere che lo stava affliggendo: “È successo quando avevo già cominciato a fare l’allenatore. A un certo punto mi sono reso conto di aver perso completamente la fiducia nel mio corpo e che bruciavo un sacco di energie ad analizzare qualsiasi minimo sintomo si manifestasse”. La causa, ha capito in seguito, affondava le radici nel problema cardiaco che lo aveva costretto a interrompere a soli 26 anni la propria carriera di giocatore professionista e che sul momento non aveva comportato una particolare crisi interiore. “Il sostegno di uno psicologo continua a essermi utile per gestire tutte le sensazioni con cui il mio lavoro mi mette a confronto”, prosegue Cereda, che spiega: “Come allenatore mi manca lo sfogo di buttare fuori le emozioni sul ghiaccio, ma in questi anni ho ripreso con l’attività fisica perché mi fa stare meglio anche mentalmente. Inoltre grazie al percorso che ho intrapreso sto imparando ad accettare l’esistenza di situazioni che vanno contro la mia personalità e altre che non posso controllare”. Il coronavirus in questo senso è un grande test: “Dato che sono uno al quale pianificare dà sicurezza, questo periodo in cui gli scenari possono cambiare da un giorno all’altro e in cui si respira una certa ansia generalizzata è un importante banco di prova per me e l’intera squadra”.
Nel suo attuale ruolo Domenichelli più che di pressione parla di “forte responsabilità: non sono più così tanto coinvolto dall’esultanza o dalla delusione per ogni gol come i giocatori e l’allenatore, il mio lavoro consiste nell’organizzare gli impegni del club e spesso sono mentalmente proiettato 6-9 mesi in avanti rispetto alla squadra”, dice senza apparente turbamento per il futuro.


Hnat Domenichelli, general manager HCL, © Ti-Press

Vertigini ai vertici

Recenti indagini rilevano un incremento delle segnalazioni di disturbi di natura psichica da parte di sportivi d’élite. Proprio l’ansia citata da Cereda, caratterizzata da una sensazione di tensione, preoccupazione e paura – e spesso accompagnata da irritabilità, tono dell’umore basso, esaurimento dell’energia vitale – è uno dei disturbi più frequenti tra i giocatori anche al di là dell’attuale situazione: “La causa – spiega lo specialista in psicologia dello sport Mattia Piffaretti – è da ricondurre al fatto che a questi livelli gli atleti evolvono in un ambiente molto esigente con aspettative alte a cui aderire e una forte pressione legata alle prestazioni e a un calendario spesso fitto. Tali stati di ansia, se si presentano ripetutamente, rischiano di cronicizzarsi e alla lunga sfociare in burnout o nei casi più gravi in depressione”.
Che lo sport moderno rispetto a un tempo chieda molto di più a partire dal piano fisico lo testimonia il coach biancoblù: “Una trentina d’anni fa sono stati introdotti degli allenamenti al mattino il giorno della partita per far smaltire ai giocatori le conseguenze dei bagordi della sera precedente. Al giorno d’oggi che un professionista esca a far festa alla vigilia di una gara è impensabile. In relazione al passato anche la concorrenza è aumentata perché – fa cenno sotto di noi dove un gruppo di piccoli hockeysti cade e si rialza sul ghiaccio con una disinvoltura da pinguini – è migliorato il lavoro che si fa con i giovani e il numero di giocatori che si riesce a creare è superiore”. Tale aspetto è ancor più forte in Nord America dove sia Cereda che Domenichelli hanno giocato; il direttore sportivo bianconero, che in Canada è nato e cresciuto, racconta: “In Nhl la pressione è davvero alta perché ci sono a disposizione i migliori giocatori del mondo e se uno è in difficoltà viene subito sostituito. Ai miei esordi nella massima lega sono stato scambiato più volte con le leghe minori, e in quel contesto ho dovuto far capo a una grande forza mentale. Poi nel 2003 sono arrivato in Svizzera come straniero, e in quanto tale ero comunque particolarmente sotto pressione perché dovevo dimostrare il mio valore a ogni partita, però le esperienze precedenti mi avevano preparato”.


Mattia Piffaretti, © M.P.

Gestire i passaggi fuori pista

Esistono dei momenti in cui la possibilità che il baricentro degli sportivi vacilli è maggiore, e coincidono con le fasi di transizione. Piffaretti elenca le seguenti: “Il passaggio da un livello di agonismo a un altro che richiede un adeguamento delle priorità nella vita, i ferimenti, e soprattutto la fine dell’attività, in particolare se si è investito tutto nella pratica agonistica tralasciando altri aspetti dello sviluppo personale come la formazione o la vita sociale”. Lo spettro dello stop definitivo in generale è tale perché chiede agli atleti di ridefinirsi passando da quello che Cereda chiama “un mondo ‘finto’, dove si guadagna molto e si è al centro dell’attenzione, a quello ‘reale’ dove bisogna trovare un altro impiego, dove un senso di vuoto può prendere il posto dell’intensità di emozioni che si vive solo durante le partite, e dove il corpo rischia di trasformarsi in maniera indesiderata compromettendo l’autostima”. “Anche se eccellono, gli sportivi d’élite verso i 40 anni devono smettere – considera dal canto suo Domenichelli –. Certo, è una strada privilegiata che molti sognano di prendere, e io sicuramente la rifarei, però è necessario pianificare il futuro e accettare di non essere più delle star”.
I disturbi in questione e le malattie che possono generare non sono una colpa e per venirne fuori spesso non ‘basta volerlo’: “Per me sono da equiparare agli infortuni – dice l’allenatore dell’Ambrì – perché al loro pari limitano le prestazioni dei giocatori. Il passo decisivo sarà quando queste verranno riconosciute da tutti come problematiche ufficiali. Io penso che la cosa migliore sarebbe che ognuno potesse avere una persona di fiducia con cui confrontarsi e allenarsi”. E ‘allenarsi’ non è solo una metafora: ci sono metodologie d’intervento psicologico efficaci per uscire dai sotterranei del proprio malessere che si possono apparentare a un lavoro di sviluppo tecnico o fisico. “Il nostro cervello è dotato di plasticità, è capace cioè di trasformarsi attraverso delle tecniche di allenamento” conferma lo psicologo dello sport, che continua: “Per sensibilizzare e intercettare chi sta male, quale primo passo propongo di offrire degli spazi di discussione di gruppo che permettano agli sportivi di verbalizzare e condividere le difficoltà. Per approcciare questo tema delicato è inoltre imprescindibile la competenza degli allenatori: sono loro a trovarsi a contatto diretto con le reazioni dei giocatori e ad avere la possibilità di osservarli. Fortunatamente in Svizzera abbiamo un sistema di formazione che punta molto sul rafforzare le capacità personali e l’intelligenza emotiva dei coach”.

L’hockey è quello che fai

Un fattore che fa la differenza, spiega infine Piffaretti, è la maniera in cui viene proposta la disciplina agonistica e che tipo di clima viene creato per sostenere la performance degli sportivi. “In un ambiente unicamente centrato sul risultato dove gli errori non vengono riconsiderati come possibilità di crescita e vige un’esasperata rivalità, i rischi sono più pronunciati soprattutto in occasione degli insuccessi, che sono inevitabili. Un fattore di grossa protezione è dunque la capacità nei club di creare climi emozionali positivi orientati verso l’accrescimento delle competenze e lo spirito di gruppo che vanno a soddisfare una serie di bisogni fondamentali dei giocatori tenendo in considerazione il loro aspetto umano”. Un ambiente accogliente che è ancora più importante nei settori dei giovani, proprio pensando ai quali Domenichelli ha scritto la sua lettera: “I ragazzi devono capire che hanno il diritto di non essere i migliori della loro squadra e che restano dei ragazzi eccezionali anche se non arrivano in Nhl. I genitori devono capire che non aiutano ma danneggiano i propri figli nella loro crescita come individui quando si trasformano in allenatori durante il viaggio di ritorno a casa in macchina dopo una partita. L’hockey è uno sport meraviglioso”, conclude, ma “essere giocatore di hockey è quello che fai, non quello che sei”.

LA DOPPIA FACCIA DELL’ATTENZIONE MEDIATICA

L’hockey, che assieme al calcio è lo sport più seguito in Svizzera, è anche tra i più mediatizzati. Oggi i protagonisti si trovano a fare i conti con un implacabile e invasivo sguardo esterno costituito da giornali, siti di informazione, blog e social media: “Rispetto a un tempo c’è una continua ricerca di notizie ‘à la minute’ – dice Luca Cereda –. I giocatori prima venivano osservati unicamente durante la partita, ora sono costantemente sotto l’obiettivo, anche dei telefonini per strada. Inoltre una volta i commenti si facevano al bar, oggi invece molti scrivono online anche cose pesanti e offensive senza magari metterci la faccia. Ai giocatori si consiglia di starne alla larga, ma sicuramente c’è chi ci casca o viene suo malgrado raggiunto da certe osservazioni pesanti”.
“Bisogna essere pronti e non farsi eccessivamente influenzare – considera in merito Hnat Domenichelli –. Quando ti elogiano non puoi volare troppo in alto e quando ti criticano non puoi scendere troppo in basso. Per delle valutazioni oggettive ci si deve affidare alle persone più vicine con cui si lavora. Il messaggio che cerchiamo di trasmettere anche ai giovani è che il fatto di aver disputato una buona partita da highlights non significa che si è arrivati, e d’altro canto se si attraversa un momento difficile non si deve mollare tutto”.
All’interno dei club l’argomento del malessere emotivo e mentale non emerge con facilità, nel sommerso ci sono ancora molti disagi che si consumano in una nascosta e solitaria implosione, vuoi per il timore delle reazioni anche mediatiche, vuoi per un senso di vergogna o fallimento. “Si fa ancora fatica a parlarne apertamente – osserva il tecnico biancoblù – perché spesso viene percepito come una debolezza. Questo è un universo nel quale ancora molti credono che bisogna mostrarsi duri e stringere i denti, tuttavia anche nel resto della popolazione esiste un certo tabù legato a tali aspetti”.
Tabù che fortunatamente inizia a infrangersi: “I problemi legati alla salute mentale stanno sì aumentando – e lo sport riflette una tendenza in atto in generale nella società, valuta lo psicologo dello sport Mattia Piffaretti – ma questo dato va interpretato considerando anche che sempre più atleti riconoscono il disturbo e accettano di rivolgersi a figure professionali per risolverlo, anche grazie a diversi sportivi in vista che hanno parlato sui media delle loro esperienze”.
“In seguito alla mia lettera – racconta a tal proposito Domenichelli – ho ricevuto diversi messaggi che parlavano di situazioni simili alla mia e mi ringraziavano di essermi aperto perché di solito gli sportivi non ne parlano facilmente. E dopotutto, anche io l’ho fatto solo alla fine della mia carriera”.

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