Sunderland, una passione ‘fino alla morte’
Il pallone e i tifosi in una serie su Netflix. Per raccontare la vita di una comunità partendo dallo stadio di calcio.
Di Jacopo Scarinci
Pubblichiamo un contributo apparso in Ticino7, allegato del sabato a laRegione.
Sunderland è una città talmente orrenda da essere meravigliosa. Quasi 180mila anime a due passi dal mare nel Nord-est dell’Inghilterra, che passano la loro vita tra cantieri navali, pub, industria metallurgica e la consapevolezza che se non ci fossero nati, in quel posto, non ci sarebbero finiti neanche pagati. Con loro e dentro di loro il Sunderland Afc, la squadra di calcio. I Black cats (‘Gatti neri’), raccontati come meglio non si sarebbe potuto da Netflix con la serie originale Sunderland ’til I die, Sunderland fino alla morte. Perché è successo qualcosa di epocale, in quella landa dimenticata da Dio e dalla fortuna negli ultimi anni. È successa una tragedia inenarrabile, sportivamente e non solo. Anzi.
La scusa del calcio
Dopo anni e anni il Sunderland nel 2018 viene retrocesso dalla Premier League. La squadra non era malaccio, l’allenatore nemmeno. Ma retrocede. Capita. Ed è qui che si inserisce Netflix, con un’idea di quelle da genio: facciamo una docuserie sull’immediata risalita di una squadra appena retrocessa. Peccato che la prima stagione da fanfara organizzata passi a lenta e costante agonia non solo della squadra, che finirà ancora retrocessa collezionando una doppietta di relegazioni in fila, ma di una città intera. Perché come ebbe a dire uno dei massimi intellettuali contemporanei, l’allenatore José Mourinho, “chi sa solo di calcio non sa niente di calcio”. E Netflix l’ha capito. Al centro ci sono i giocatori, certo. La dirigenza, gli allenatori, chiaro. Ma i veri protagonisti sono i tifosi seguiti con le telecamere in casa, allo Stadium of Light, in trasferta, nei sobborghi, nei pub a caricarsi di birra fino a volteggiare. Che sanno descrivere con una lacrima, con una fila di insulti in curva, con aneddoti e ricordi cosa voglia dire amare una squadra. Anche quando viene retrocessa. Due volte. E quando il proprietario molla tutto, l’amministratore delegato passa alla storia per essere l’unico a usare la vasca criogenica da 100mila sterline, il centrocampista Jack Rodwell che fa la muffa in panchina strapagato decine e decine di migliaia di sterline a settimana decide di non farsi cedere compromettendo il calciomercato di gennaio, loro erano lì, in curva. La città era lì, a sostenerli. A soffrire. A star male. Fino, appunto, alla seconda retrocessione in fila.
Tutta una vita
Ma quando una cosa va male può sempre andare peggio. E così la seconda stagione appena pubblicata su Netflix, quella che ripercorre l’anno 2018-2019, amplifica il concetto di dramma e lo proporziona al numero di pinte bevute in pub fatiscenti o meno da tifosi comunque innamorati. Nessuno spoiler – gli appassionati sanno come è finita, chi vuol vedere la serie (fatelo) lo scoprirà – ma l’ennesima prova di un semplice concetto: il calcio non è solo uno sport, la squadra per cui si tifa non è solo un passatempo. Due verità banalissime, come in fondo lo sono tutte le verità, ma da scolpire nella pietra. Perché lo si vada a spiegare ai tre anziani al pub che conteggiano i loro anni di frequentazione dello stadio e insieme arrivano a 164. Oppure a Joyce, la cuoca della squadra che ama i giocatori come fossero suoi figli chiunque essi siano e da qualunque posto provengano. O al tassista, al macellaio, al padre di famiglia. O alla signora sui cinquanta che dopo una vittoria dice “di solito bevo della vodka per dimenticare le sconfitte, oggi ne bevo due per festeggiare”. E il marito: “Oggi mi hanno salvato il weekend”.
La forza del tifo
Lodato dalla critica, questo documentario riesce in tutto: accettato per puro lucro dal primo proprietario – il fuggiasco –, sopportata a stento da Chris Coleman – l’allenatore col pedigree che ha portato alla relegazione in League One nel 2018 –, volendo raccontare una squadra di calcio lo ha fatto raccontando soprattutto il contorno: i suoi tifosi, la loro incrollabile fede. Il loro riempire lo stadio alla prima partita in terza serie, dopo una legnata dietro l’altra, cantando che la loro è la squadra migliore del mondo. Sono i tifosi che buona parte dei loro risparmi annui li investono nell’abbonamento, e che il loro tempo libero lo passano allo stadio da soli o con la famiglia, a fare una squadra. Lo ha raccontato in modo unico Nick Hornby nel libro Febbre a 90 anni fa. Lo ha confermato questa docuserie.
Città operaia
Sunderland ’til I die è dimostrazione fortissima di attaccamento, radici, passione, collettivo, stare insieme nella disperazione e nell’esultanza, nel dolore e nella festa. In una città operaia governata per decenni dalla sinistra e che ha virato votando quasi al 62% per la Brexit, dove pure gli scorci più romantici inquadrano solo lamiera e disagio (eccezion fatta per il faro, merita), dove la disoccupazione galoppa e dove di gioie neanche a parlarne, il calcio è tutto. In Premier League come in League One, la terza serie. Contro il Manchester United o in postacci di periferia come Gillingham o Fleetwood. Sotto la pioggia, nel freddo. In curva, in strada, in casa, nei negozi, in chiesa. Con gli occhi lucidi di un papà che, dopo una sconfitta pesantissima, abbraccia il figlio per consolarlo. “Ci siamo già passati” , gli dice. E con gli occhi gonfi: “Tiferemo Sunderland, fino alla morte”.