Moda “verde” alla conquista della Svizzera
La produzione e la distribuzione dei capi d’abbigliamento è il secondo settore più inquinante al mondo. Anche per questo sempre più marchi puntano su qualità (e non quantità).
Di Stefano Castelanelli
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.
Locarno. Sono passate da poco le otto di mattina e Lisa Pomari attraversa la Piazza Grande avvolta dal freddo di una mattina di fine inverno. Qua e là i furgoni scaricano la merce per rifornire i locali del centro. Nei bar qualcuno sorseggia il caffè e sfoglia il giornale. Altri chiacchierano animatamente. All’altezza del bar Ravelli Lisa svolta a sinistra in via Panelle. Prosegue per alcuni metri poi si ferma davanti a una boutique. Infila la chiave nella serratura e apre la porta. Appena entrata, si dirige nel retrobottega, si toglie il giaccone e si prepara un tè caldo. Inizia così una nuova giornata di lavoro.
Inizia la formazione
«La mattina prima dell’apertura del negozio mi piace svolgere le attività pratiche», racconta Lisa. I compiti variano dal creare schizzi delle stampe sull’iPad, al digitalizzare i disegni al computer, allo sviluppare cartamodelli, fino a tagliare e cucire i vestiti stessi. Lisa è una fashion designer ticinese. Cresciuta a Locarno, dopo aver ottenuto la maturità liceale si è spostata a Milano per inseguire il suo sogno: una carriera nella moda.
«Arrivata a Milano non ho avuto il coraggio di frequentare uno studio di fashion perché in Ticino tutti me lo sconsigliavano – racconta Lisa –. Qui da noi lavorare nella moda non è visto di buon occhio. Così mi sono iscritta a uno studio di scienze politiche». Ma quando uno ha una passione è solo una questione di tempo prima che trovi la sua strada. E così è stato anche per Lisa. Lo studio in scienze politiche non faceva per lei. Dopo neanche un semestre ha abbandonato l’università e, libera da impegni, ha potuto concentrarsi sul suo vero interesse: la moda. Era nella città giusta, Milano, capitale della moda, ora doveva solo trovare lo studio giusto per realizzare il suo sogno. «Mi sono iscritta a dei corsi all’Istituto Marangoni, una delle scuole di moda più prestigiose e antiche – racconta Lisa – e non sono più tornata indietro».
I primi riconoscimenti
Lisa ha talento nel creare i vestiti. Verso la fine del suo studio è stata scelta dalla prestigiosa rivista Vogue tra i 200 talenti emergenti dell’industria della moda. Grazie alla notorietà, ha ricevuto diverse offerte di lavoro da marchi molto famosi. Per qualche mese ha anche lavorato per un’azienda del settore a Milano, ma si sentiva soffocata. Un semplice ingranaggio della catena di produzione che doveva solo sfornare disegni di vestiti uno dopo l’altro a ritmi elevati. «Sono tornata a Locarno e ho lavorato in altri ambiti – racconta Lisa –. E così ho scoperto il mio spirito imprenditoriale. Mi piaceva essere attiva in diversi campi. Svolgere compiti differenti. «È così nata l’idea di creare i propri vestiti. Grazie all’aiuto di altri creativi attivi nel cantone ha mosso i primi passi fino ad arrivare nel 2016 a creare il proprio marchio: «LP4». Adesso ha un atelier-boutique a Locarno dove produce e vende i suoi vestiti. Lo spazio è condiviso con altri due creativi ticinesi, Vanessa Venturi e Sami Perucchi del marchio «mae».
Lisa è convinta che l’industria della moda debba cambiare e non è l’unica a pensarlo. Proprio lo scorso marzo le Nazioni Unite hanno lanciato l’alleanza per una moda sostenibile (Alliance for Sustainable Fashion) che promuove progetti e politiche per diminuire gli impatti negativi dell’industria della moda.
L’impatto ambientale
Ma perché proprio la moda? Quando pensiamo ai settori con un effetto dannoso sull’ambiente, ci vengono in mente solitamente altri ambiti, come la produzione di energia, i trasporti o l’agricoltura. Tuttavia, l’industria della moda è considerata dalle Nazioni Unite il secondo settore più inquinante al mondo. Il modello di business dominante è quello del fast fashion, secondo cui ai consumatori vengono offerte sempre nuove collezioni a prezzi bassi così da incoraggiarli a cambiare i vestiti molto frequentemente. I giganti del fast fashion come H&M e Zara propongono nuove collezioni addirittura settimanalmente e a prezzi stracciati. Molti esperti ritengono che questo modello di business sia responsabile degli impatti sociali e ambientali negativi dell’industria della moda.
I numeri parlano chiaro. L’industria della moda consuma ogni anno 93 miliardi di metri cubi d’acqua. Una quantità sufficiente per permettere a 5 milioni di persone di vivere. Inoltre, la produzione di vestiti e calzature è responsabile dell’8% delle emissioni globali di gas serra e produce il 20% delle acque di scarico globali. Mentre ogni secondo, un camion pieno di vestiti viene buttato in discarica o bruciato.
Sprechi e nuove sensibilità
Siamo diventati dei divoratori di vestiti. Ne compriamo sempre di più per usarli sempre meno. Secondo il rapporto di McKinsey sullo stato dell’industria della moda 2019, compriamo in media il 60% di capi d’abbigliamento in più rispetto a 15 anni fa e li teniamo per la metà del tempo. I vestiti sono diventati prodotti usa e getta. La metà dei vestiti nuovi che compriamo ogni anno non li indossiamo nemmeno o solo raramente. Visto il nostro enorme consumo di vestiti è fondamentale che i capi d’abbigliamento vengano prodotti in modo più etico e sostenibile possibile.
L’industria della moda si sta piano piano accorgendo che il settore deve cambiare. Secondo il rapporto di McKinsey, la sostenibilità per la prima volta nel 2019 è stata nominata dai top executive del settore come una delle sfide più importanti che l’industria deve affrontare. Il concetto si sta evolvendo da un semplice mezzo per migliorare l’immagine dell’azienda a una vera e propria strategia aziendale radicata nel modello di business. La società di abbigliamento outdoor «Patagonia» per esempio produce giacche in poliestere da bottiglie di PET riciclate. Mentre l’azienda canadese di abbigliamento «Novel Supply» ha implementato un sistema di raccolta di abiti usati grazie al quale i clienti possono restituire i loro vestiti quando non li indossano più, in modo che l’azienda possa riciclare e riutilizzare i materiali.
Una moda più ’lenta‘
Nonostante i buoni propositi di alcune aziende, però, l’unico modo per rendere davvero sostenibile la moda è porre fine alla cultura del fast fashion. Raddoppiare la durata di utilizzo di ogni capo di abbigliamento infatti permette di dimezzare le emissioni di gas a effetto serra dell’intero settore. Un principio questo che è al centro dell’idea dello slow fashion.
A differenza del fast fashion, lo slow promuove vestiti di alta qualità che durano a lungo. Questo è in definitiva il concetto principale, ma il termine viene usato anche per indicare un gran numero di strategie per rendere la produzione di vestiti più sostenibile. Slow fashion significa anche una produzione con elevati standard sociali e ambientali, un’attenta selezione delle materie prime e un commercio equo e solidale. Il tutto con design all’avanguardia e prezzi accessibili. Il concetto stesso mette in discussione il nostro rapporto con i vestiti. Ci sfida ad avere più cura e attenzione per i vestiti che compriamo e indossiamo.
Produttori e consumatori
«Per me slow fashion è soprattutto la contrapposizione al fast fashion – spiega Lisa –. Il fatto che noi creatori di moda ci prendiamo il tempo di sviluppare i capi senza la frenesia di dover produrre sempre nuove collezioni a ritmi elevati». Per Lisa è stato naturale seguire i principi di una produzione con standard sociali e ambientali elevati. «Quando ho iniziato a produrre i miei vestiti ho conosciuto meglio l’industria della moda – racconta Lisa – ed è stato automatico produrre in modo sostenibile e locale». Per la produzione dei suoi capi Lisa infatti sceglie materiali di qualità e a base naturale che acquista da aziende della regione. I vestiti che confeziona nel suo atelier con l’aiuto dei suoi collaboratori sono allo stesso tempo trendy, sostenibili e a prezzi accessibili.
Lisa non è l’unica a promuovere vestiti di qualità, equi ed ecologici. In Svizzera ci sono sempre più marchi e stilisti che mettono la qualità prima della quantità. Marchi svizzeri famosi per la moda maschile e femminile sono per esempio «Jungle Folk», «Komana», «Etris» e «ZRCL». Mentre «Rotauf» punta sull’abbigliamento outdoor con capi realizzati in Svizzera e con materie prime preferibilmente prodotte da noi. Una tendenza, quella dello slow fashion, che promuove la creazione e la produzione di vestiti nel nostro Paese. Forse nei prossimi anni anche noi avremo un’industria della moda di successo, grazie a consumatori più attenti ai vestiti che comprano e indossano.
IN CIFRE
6’000: sono gli impiegati nel meta-settore della moda in Ticino (che include attività produttive, commerciali e logistica). Sono circa 40 le aziende attive in questo comparto.
1’500: sono gli impiegati nel settore della produzione di vestiti nel nostro cantone; circa 7 le aziende impegnate.
2’600 franchi: è il salario minimo del Contratto collettivo di lavoro (CCL) per gli impiegati nella produzione di vestiti.
(fonti: TicinoModa e sindacato OCST)
PRODUZIONE & RICICLAGGIO
› Il consumo di vestiti in Svizzera dal 1950 ad oggi è quintuplicato.
› Oggi in media ogni svizzero compra annualmente più di 60 articoli d’abbigliamento e butta via circa 15 chilogrammi di vestiti.
› La metà dei vestiti scartati viene consegnata alla raccolta differenziata; l’altra metà finisce nel cestino della spazzatura e viene bruciata in un inceneritore.
› Due terzi dei vestiti consegnati alla raccolta differenziata sono in buono stato e vengono rivenduti all’estero principalmente in Europa dell’Est, Russia e Africa. Il resto viene riutilizzato per produrre stracci o materiale isolante.
› La maggior parte dei vestiti oggi è composta da tessuti misti che non possono essere riciclati per produrre nuovi vestiti.
› I vestiti consegnati alla raccolta differenziata possono solamente essere rivenduti come abiti di seconda mano, oppure riutilizzati per produrre prodotti di qualità inferiore (stracci, materiali isolanti).
› In futuro, per poter riutilizzare i materiali per la produzione di nuovi vestiti, sarà necessario sviluppare tecnologie che permettano di estrarre le singole fibre dai tessuti misti oppure creare vestiti di un unico tessuto adatti al riciclaggio.