Cosa (non) succede in città

In Ticino i centri urbani appaiono sempre più vuoti e noiosi. Come se ne esce?

Di laRegione

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.

Negli orari di punta nelle nostre cittadine c’è un gran trambusto di auto, bus e treni che traboccano di gente. Ma dopo le sette-otto di sera, molto spesso non c’è più anima viva in giro. Silenzio, centri mezzi vuoti, piazze e vie deserte, quattro gatti al bar… soprattutto in settimana. Da un ventennio almeno è inevitabile accorgersi di come gli spazi pubblici, talvolta interi quartieri, abbiano perso il loro contenuto principale: noi. Potremmo dire che stiamo subendo la città invece di goderne appieno, di viverla e farla nostra.

Problema diffuso

Un po’ ovunque in Svizzera, da Lugano a Nyon, da Bienne a Losanna si sprecano studi e si scomodano accademici per capire come riportare vita in città. Che sta succedendo? La morìa (non solo economica) dei centri cittadini riguarda località piccole e grandi, tant’è che sia Bellinzona sia Berna furono teatro di proteste e manifestazioni giovanili: nel 2012 si tenne il «Botellón» in Piazza del Sole, contro la normativa comunale per limitare il rumore negli esercizi pubblici in centro; nel 2013 la capitale svizzera fu invasa dalla protesta giovanile «Tanz dich frei», che rivendicava una città più viva, con più spazi notturni ecc.

Insomma, tornando al Ticino e al suo maggiore polo urbano, è vero oppure no che «Lugano è una città morta», come dichiarò nel 2015 al portale tio.ch, magari esagerando un po’, un artista che abita proprio in centro? E se Lugano è morta, come sono Bellinzona, Locarno o Chiasso? Il Blick nel 2015 lanciò il macigno nello stagno: «Tristezza im Ticino» titolò un reportage che criticava la scarsa accoglienza dei turisti. Scoppiò l’annosa polemica tra approvazione e indignazione. Si ripetono da tempo commenti e opinioni dei residenti nei blog e nei social media, misti a rassegnazione e nostalgia di periodi ormai tramontati. Un esempio: l’articolo del Blick nel blog di ticinonews.ch fu commentato così da tale «Canossa»: «Vivo e lavoro nel Bellinzonese, alla mattina sono in giro a portare i figli a scuola, poi caffè, commissioni e spesa… è una tristezza veramente». Aveva ragione? Si sbagliava? Eppure proprio a Bellinzona negli anni Novanta bisognava sgomitare per passare nella storica e suggestiva Via Codeborgo, tanta era la gente in giro all’aperitivo e la sera.

Domande banali

Che cos’è una città? Di fronte alla desolazione dei centri e alle lamentele di molti cittadini, vien da chiedersi: Bellinzona, Locarno, Lugano, Mendrisio o Chiasso sono davvero delle città? E cos’è una città? Cosa sarebbe allora la famosa Città Ticino a cui alludono spesso i politici e le autorità nei progetti di sviluppo, come il Piano Direttore (PD)? È «uno slogan» commentò sempre a tio.ch nel 2008 il geografo e docente all’USI Gian Paolo Torricelli, riconoscendo tuttavia che dietro c’è «la consapevolezza del fatto che il Ticino è diventato definitivamente una società urbana». Una società urbana, quindi, ma che spesso non vive e non fa vivere gli stessi centri urbani.

Lo stesso PD, tra i suoi obiettivi pianificatori, afferma giustamente che «dal profilo sociale» lo spazio pubblico urbano «è fondamentale in termini di incontro, sicurezza e identità». E un punto importante è la «qualità urbanistica» (ma anche urbana), cioè «un compito dell’intera collettività, degli enti pubblici ma anche dell’economia privata». La città dovrebbe quindi aggregare e non disperdere, far socializzare e non isolare, a patto di poterci riconoscere in essa e apprezzarla. È compito dei cittadini farlo, di chi altri sennò? E dei Comuni che regolano e pianificano, concedendo o meno spazio alle iniziative dei privati, i quali sperano di attrarre cittadini.

La gentrificazione

Un po’ ovunque si rinnovano quartieri e edifici centrali, spostando i suoi abitanti in periferia, in cambio di nuovi abitanti più benestanti. È la gentrificazione, che si aggiunge alla peri-urbanizzazione, ovvero lo sviluppo abitativo attorno ai centri urbani, dove c’è più terreno a basso costo. Un fenomeno che sembra inarrestabile e che, tuttavia, produce l’esatto contrario di quanto si descrive idealmente nel PD: la desocializzazione del centro.

È la stessa autorità cantonale che, in una scheda, afferma: «All’importante crescita demografica delle aree suburbane e peri-urbane corrisponde la stagnazione – o addirittura il decremento – dei centri urbani». Solo nel Locarnese la periferia (o l’area suburbana) accoglie «(…) piuttosto residenti facoltosi provenienti da fuori cantone». Per Paolo Fumagalli – autore del «Diario dell’architetto» per il periodico Archi (si veda espazium.ch) – con le aggregazioni comunali sono sì nate delle «nuove città» con più abitanti, ma solo «per ragioni squisitamente amministrative», scrive, quando «molte sono in realtà un insieme di villaggi». Oibò! Si torna al problema di prima. Per Fumagalli «città tradizionale e borghi e villaggi e ‘campagna con villette’ vanno a formare una miscela – o una brodaglia, guardate voi – di forme più o meno urbane diverse mescolate tra loro».

Eppure, se le nostre città non fossero tali, proprio grazie alle loro ridotte dimensioni dovrebbero popolarsi più facilmente, ogni giorno, a qualsiasi ora… Punti di vista, forse, anche culturali. Infatti per il geografo ginevrino Betrand Lévy i centri svizzeri «sono ancora vivi e non soffrono troppo dei mali di oggi, come lo spopolamento, la desertificazione economica (…) e il disinvestimento sociale». Peccato che nessuno degli autori presenti nel libro di Lévy, La Suisse est un village (2016) parli di Lugano o di Locarno: secondo voi come le avrebbero descritte?

Città non-luoghi?

Lo storico luganese Antonio Gili in un dibattito di Coscienza svizzera sosteneva che «stiamo rendendo le città le une sempre più uguali alle altre, perciò noiose». I centri urbani sarebbero ormai omologati: stessi negozi, ristoranti, bar, mode e modi di vivere, eventi, attrazioni, persino stessi artisti di strada. È il concetto (sin troppo abusato, ma calzante) di «non luoghi» caro all’antropologo francese Marc Augé. La conseguenza sarebbe che, afferma la sociologa Cristina Pasqualini riferendosi alla metropoli di Milano, «per troppi anni le strade non sono state sociali (…), abitate da persone che non si conoscono tra loro, che non sentono di appartenere a uno stesso luogo, sul quale del resto non sono interessati a investire affettivamente e concretamente». Ecco allora: sì gente in giro, vie e piazze frequentate, ma da sconosciuti, da anonimi, in particolare nelle grandi e popolose città. Invece, scrive Fumagalli, «occorre definire tutto ciò che è pertinente all’abitante, dei suoi spazi di vita, delle sue abitudini, dei suoi luoghi d’incontro e di socializzazione». Sono tutti criteri che non mancano a Chiasso o a Locarno, eppure «Così non va!», s’intitolava già nel 2004 il documento cantonale Il Ticino delle nuove città.

Nuove città, in che senso dunque? A illustrare l’analisi una fotografia di una piazzetta in centro a Bellinzona, deserta, triste, grigia, con le sedie e i tavoli vuoti di un bar, per di più in un centro storico molto bello e caratteristico che, come quello di Locarno o di Mendrisio, dovrebbe inorgoglirci e renderci felici. Già, c’entra anche la felicità. La filosofa ticinese Lina Bertola, su ticinolive.ch,
scomoda Platone: «Una città è felice quando sono felici i suoi cittadini», quindi «i cittadini sono felici quando vivono in una città felice». Sono dunque città felici le nostre, quelle dai centri deserti la sera, con balconi e terrazze mezzi vuoti, anonimi uffici invece di appartamenti? E soprattutto, noi lo siamo?

Anziani contro giovani?

«In questi ultimi due decenni la città è cambiata, ma anche i giovani sono cambiati» scrivono il geografo Gian Paolo Torricelli e il responsabile di Pro Juvenute in Ticino, Ilario Lodi, nel documento dell’USI I giovani e la città. Così com’è cambiata la popolazione. Non ci piace dirlo ma siamo un cantone di anziani, con sempre meno giovani. Lo provano le statistiche: senza l’immigrazione le città ticinesi invecchierebbero sempre di più. Non è un caso che siano spesso i più maturi che ricorrono (vincendo) contro certi locali pubblici o certi eventi. Il destino del Grotto Pasinetti a Gorduno o del City Garden al Locarno Festival ne sono l’esempio. Per giunta la peri-urbanizzazione e la gentrificazione fanno sì che molti giovani non abitino in centro, perciò lo evitano, oppure ci arrivano a fatica. Quante volte il Consiglio cantonale dei giovani ha rivendicato, invano, mezzi pubblici più efficienti la sera e la notte tra centro e periferia? Per giustificare la desolazione c’è chi incolpa l’abbassamento del tasso alcolemico al volante nel 2005, il bando del fumo nei locali pubblici nel 2007, l’eccessiva severità di «Via Sicura» nel 2012 e via così. Per altri ancora è «colpa» dei soliti cellulari e delle piattaforme di socializzazione in rete, e poi mancano offerte «interessanti» o «alternative» di una vera città ecc. Alcuni giovani lamentano i prezzi troppo alti (un vecchio tormentone) nei locali nostrani e per questo frequentano quelli di Ponte Chiasso.

Qualunque sia il motivo, si torna all’interazione necessaria tra cittadini, politici e privati che fanno la «qualità urbanistica» (e urbana). Forse è questa, per usare le parole del giornalista Aldo Bertagni nel documento dell’USI, la «dinamicità contraddittoria che costringe a ridisegnare l’idea di città». Anche in funzione dei giovani, cittadini come tutti, forse futuri abitanti, forse innovatori, perché solo «mettendoci in relazione con loro si può cambiare la città», affermava nello studio dell’USI il capo degli eventi a Lugano, Claudio Chiapparino. «Se invece è sempre una questione di repressione, di non ascolto, di emarginazione» concludeva, «diventerà sempre peggio». Speriamo non dovergli dare ragione.

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