Il mio Sessantotto

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Di laRegione

L’ho vissuta, e dal di dentro. Fu la nostra «piccola» contestazione nel ’68, al liceo di Lugano. Delle tante forme e luoghi in cui la rivoluzione si espresse nel mondo troverete traccia nell’articolo di approfondimento di questo numero. Ma quel che «stava sotto» fu ovunque un denominatore… o se volete un detonatore comune. Sto parlando dell’inizio, si badi bene, della fase aurorale, durata pochi mesi. Certo, in Ticino la rivolta fu declinata «alla svizzera», con espressioni poco pirotecniche e senza violenza fisica, ma toccò corde profonde. Alla radice: si trattò di una ribellione al formalismo, in tutti i rapporti socialmente decisivi, la famiglia, la scuola, la Chiesa. Il formalismo era una cappa di regole, precetti, divieti che opprimeva i giovani di ogni ceto sociale, non solo e non tanto per ovvio ribellismo adolescenziale, ma per una ragione che, se mai, quel ribellismo potenziava ed esasperava. Si vedeva chiaro che genitori, insegnanti e uomini di Chiesa (con poche eccezioni) ci trasmettevano valori e parole d’ordine di una tradizione che loro stessi trascinavano senza più riscoprirne e sperimentarne intimamente i contenuti positivi originari. Insomma, non erano testimoni credibili di una tradizione bella anche se magari impegnativa. Imponevano, con ottime intenzioni, quel «si fa così, come si è sempre fatto» in modo autoritario. L’autorità vera, invece, educa mostrando nella propria umanità vissuta, più che a parole, perché valga la pena seguire una certa strada. Purtroppo, ci battemmo per sollevare questo coperchio soffocante e quasi subito ci trovammo addosso una cappa di piombo più disumanizzante: quella delle utopie ideologiche, marxismo-leninismo e un certo freudismo superficiale, che egemonizzarono quasi totalmente la scena sessantottesca. 

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