Meral Kureyshi: ‘La verità mi annoia. Quando scrivo gioco’

L’autrice, natia di Prizren, è stata in Ticino a presentare ‘Elefanti in giardino’ (2015): un’occasione per parlare di migrazione e letteratura

Di Sara Rossi Guidicelli

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione

L’autrice bernese, nata a Prizren (Kosovo) nei primi anni Ottanta, nonostante venga spesso definita come ‘una giovane donna che scrive di migrazione in un libro autobiografico’, preferisce definirsi semplicemente come una persona che si occupa di letteratura: ‘Mi diverto a scrivere, scrivo di ciò che so e che mi tocca’, miscelando storia personale e collettiva. Tempo fa, Kureyshi ha presentato il suo ‘Elefanti in giardino’ per la prima volta in Ticino, fra le mura di un’aula. Un’occasione che le ha permesso di raccontare a un gruppo di allieve come vive la scrittura, di cosa è composta una storia (secondo lei), di stile e di una vita a cui a volte è mancata una metà, come in tutte le vicende di migrazione.

Baba dice: Se qualcuno ti tira pietre, tu dagli del pane. Baba è il papà della protagonista, che dedica il suo racconto al padre, che è dentro una bara, che è dentro la terra. L’autrice, Meral Kureyshi, è stata in Ticino a presentarlo per la prima volta in marzo, su invito di un’illuminata docente di tedesco, Marisa Rossi. Una quindicina di sue allieve ha aderito, dopo aver letto il libro, ‘Elefanti in giardino’, in lingua originale tedesca. Il romanzo è del 2015 e Dadò ne ha pubblicato la traduzione, a cura di Sandro Bianconi, nel 2022. Eppure era la prima presentazione pubblica a Sud delle Alpi e questo è il primo articolo che parla di questo splendido libro. Nella Svizzera tedesca invece è stato subito accolto con entusiasmo, ed è stato già tradotto in numerose lingue.

Una persona che scrive

Meral Kureyshi si è presentata davanti alle ragazze del Liceo di Lugano 2 precisando subito che, nonostante spesso una certa critica la definisca “una giovane donna che scrive di migrazione in un romanzo autobiografico”, lei preferisce dire semplicemente che si occupa di letteratura. E questo è l’errore che sovente si tende a commettere: incasellare gli artisti.

“Mi sento una persona che scrive, mi diverto a scrivere, scrivo di quello che so e che mi tocca, mescolando ciò che ho vissuto io o quello che hanno vissuto altre persone. Il mio è un libro su un padre meraviglioso, divertente, pieno di difetti, che muore e lascia un grande vuoto in una famiglia scapestrata, sghemba, che arriva dal Kosovo, parla turco e cerca di capire come iniziare una nuova vita in Svizzera. Certo, ci sono molti elementi autobiografici, ma anche tanti miscugli con altre storie e con la mia fantasia. La verità mi ha sempre annoiata: quando scrivo gioco, provo piacere a lasciarmi condurre dalla scrittura, che a volte mi porta lontana dalla prima realtà che avevo in mente e mi mette davanti un’altra realtà, che accolgo con meraviglia”.

Sogni come ricordi

I ricordi sono come i sogni e così anche il personaggio narrante di Elefanti in giardino inventa, per rendersi interessante agli occhi dei compagni: “Al nostro Paese avevamo elefanti in giardino e anche un leone per proteggerci dai ladri”, racconta per esempio alla sua amica svizzera. E la pagina continua: “Non potevo smettere, altrimenti non avevo niente da raccontare, niente delle vacanze o dei bei regali di compleanno o delle escursioni con i nonni. Cosa avrei dovuto raccontare dopo le vacanze, quando a lezione di francese il signor Lang ci chiedeva cosa avevamo fatto di emozionante? Avrei forse dovuto dire che i genitori avevano fumato molto e avevano litigato spesso, perché stavano insieme tutto il giorno? Che non potevano lavorare, che se la prendevano con noi, e tutti i giorni erano preoccupati? O che io ero sempre sola, che nessuno mi aveva chiamata, che mi ero annoiata? O forse che piangevo spesso e mi mancavano le cugine e le amiche?”.

E, come i sogni, i ricordi sono vivi, anche quando sono inventati. Scrivere è tradurre, spiega la scrittrice: “Dai propri pensieri si arriva a parole e frasi, ma è un processo, una strada, con porte chiuse da aprire e corridoi da attraversare nella propria testa. Questo è stato il mio primo romanzo e quindi era la prima volta che provavo a scrivere un libro: ho prodotto duemila pagine e poi ci ho lavorato sopra dieci anni finché sono diventate duecento. Ho condensato, tenuto l’essenziale. Adesso farei tutto diverso e per questo non mi piace leggere estratti del libro, perché non li riscriverei più così, ma in un altro modo”.

Libertà nei pensieri

Dopo 13 anni di attesa di un permesso per lavorare, Baba a un certo punto può ottenere un contratto, e inizia a fare le pulizie; scrive Kureyshi: “Parlava dei prodotti di pulizia come fossero supereroi. Baba puliva aerei, uffici, scuole, biblioteche, negozi, lampadari, auto, frigoriferi, stanze, pavimenti, bagni, cassonetti dei rifiuti, palestre, cucine, macchine da caffè, tappeti, strumenti musicali, aule, sale cinematografiche e musulmani defunti, prima della sepoltura, e poi puliva il tavolo sul quale erano stati deposti”.

La mamma invece si mette a portare il velo. “Mi vergognavo per questo. Nella nostra famiglia nessuno portava il velo, perché lei doveva portarlo proprio adesso, qui in Svizzera? Il problema mi tormentava e glielo dissi. Prima di parlare dovresti riflettere, mi rispose Anne [mamma; ndr]. È per questo che ho cominciato a scrivere. Potevo scrivere quello che pensavo, nessuno mi diceva che prima di tutto dovevo riflettere. Già mi vergognavo perché non avevamo i mezzi per comprarci nuovi vestiti, dovevamo tagliarci i capelli a vicenda ed eravamo gli unici a non avere l’automobile né il telefono, ed ecco che Anne si metteva addirittura a portare il velo. Già prima eravamo diversi, ormai eravamo ‘gli altri’”.

Uno sguardo capace di sorridere

Qualcuno durante la presentazione le dice: “Ho sentito tanta sofferenza in questo libro. Ho provato un senso di ingiustizia per come quella famiglia, forse la tua famiglia, è stata trattata”. Meral risponde che non si tratta tanto di sofferenza quanto di perdita. Ha perso qualcosa e spesso nei suoi libri parla di questa sensazione. La sua vita è rimasta in qualche modo un po’ a metà. Ha perso una patria, ne ha trovata un’altra, ha perso una lingua, ne ha trovata un’altra, ha perso una complicità con la mamma, ha perso il papà. Ma narra la storia con umorismo, eleganza, in modo lieve, anche se mai leggero. “Non voglio lasciare un senso di pesantezza, mi piace usare uno sguardo capace di sorridere, scelgo e alterno aneddoti che mi hanno fatta ridere ad altri che mi hanno lasciato amara. Io credo che si possa ridere di tutto e per esempio al funerale del padre i figli ridono perché l’Imam sputa nel microfono. Gli zii li rimproverano, ma loro lo sanno: anche Baba avrebbe riso”. Risata e dolore sono dalla stessa parte del cuore. E fare arte, dice lei, è cercare di afferrare l’inafferrabile, di dire l’indicibile.

Piccole pennellate

Le ragazze del Liceo, prima di questo incontro, avevano provato a tradurre una pagina di Elefanti in giardino: le dicono che sono state sorprese dalle frasi brevi che usa. Che avevano la tentazione di unirle con una congiunzione, ma poi si accorgevano che, cambiando lo stile, si riduceva l’impatto, si perdeva forza espressiva.

È la scelta stilistica dell’autrice, uno sguardo sulle cose che dà piccole pennellate qua e là per formare un’immagine, un quadro. “Continuo a lavorare sui dettagli: mi interessano le cose piccole poco appariscenti, invisibili e quindi preziose”, spiega Meral. E lo fa in modo diretto, apparentemente semplice, preciso e sempre un po’ diverso da come ce lo si aspetta.

Seguire ciò che colpisce

Marisa Rossi è contenta, da anni organizza incontri con autori e autrici svizzeri di lingua tedesca: “È un momento in cui i ragazzi e le ragazze si sentono davvero presi in considerazione come lettori. Stanno allo stesso tavolo con chi parla e non in un’aula magna: si riduce la distanza e si crea davvero un incontro. È un programma che si può attuare grazie a Collana ch, di Pro Helvetia, che dà i contributi per invitare l’artista e chi ha curato la traduzione”.

Meral adesso ha finito il terzo romanzo, che è in via di pubblicazione. Non ha più parlato dell’infanzia. Il secondo libro è una storia d’amore tra due guardiani di museo, il terzo si occupa più da vicino di un’anziana donna in una casa di riposo. È la storia di un’amicizia tra donne. “Non voglio usare lo stesso materiale per un altro libro. Cambio clima, vado dietro a quello che mi colpisce”.

Più che un errore, un mistero

Nel primo libro ci sono tante espressioni coniate dal turco, che in tedesco suonano misteriose. È certamente un altro punto di forza di Elefanti in giardino, questa sorpresa continua nella lingua, nella narrazione che ne viene fuori. “Errore è una parola che non mi preoccupa”, sorride lei. Più che errore è un mistero, che traspare dalle pagine, sono due lingue che fanno l’amore, come diceva Roland Barthes, è la fiaba che in Turchia, come in Armenia, in Russia e chissà in quanti altri Paesi oltre la porta d’Oriente inizia dicendo: C’era una volta, o forse non c’era… C’era e non c’era una volta…

“Quando per la prima volta ho scoperto che le fiabe in tedesco affermano che ‘c’era’ una volta, come se fosse accertato, sono corsa da mia mamma, scioccata”, ride Meral e tutti capiamo: che bella l’incertezza, che bello uscire dalla realtà, dalle cose che o sono o non sono.

Grazie, letteratura.


foto © Matthias Günter

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