Il cielo di Praga

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Di laRegione

Praga, 16 gennaio 1969, tardo pomeriggio. Sono passati cinque mesi dalle ultime proteste contro l’occupazione sovietica. La città si è rassegnata all’«aiuto fraterno» di Mosca. Un’ubbidienza grigia in cui ognuno si morde le labbra e ogni tanto lancia uno sguardo dietro alle spalle, ché non si sa mai. Un ventenne con la faccia pulita si avvicina all’enorme Piazza San Venceslao, ormai incupita dalla penombra. Raggiunta la scalinata del Museo Nazionale lascia cadere la sua tracolla, tira fuori una latta bianca e se ne versa addosso il contenuto: benzina. Poi un cerino acceso, le fiamme, un urlo che lacera l’aria gelida. Centinaia di passanti si bloccano, girano d’un colpo lo sguardo verso il rogo. Bocche aperte, occhi sgranati. Un tranviere corre a buttare la sua giacca sul ragazzo.«La lettera, salvi la lettera», si sente dire. Jan Palach, studente di filosofia all’Università Carolina, morirà tre giorni dopo all’ospedale. Dalla tracolla spunterà quella famosa lettera, inizia così: «Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza dei cittadini». La firma: Torcia Numero Uno. E sarà scossa davvero, la coscienza dei cittadini: mezzo milione di persone sfiderà pioggia e nevischio per aggirare a piedi i controlli ferroviari e assistere ai funerali, sotto un cielo plumbeo. Altri seguiranno l’esempio di Palach. Per un momento ancora quel piccolo popolo, da sempre calpestato, sfuggirà al miope buonsenso della sottomissione, invocando una giustizia che non ha bisogno di altre parole.

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